venerdì 5 ottobre 2012
I dilemmi di Trotsky
di Diego Giachetti
Il 7 novembre del 1939 Trotsky compì sessant’anni. La Seconda guerra mondiale era appena cominciata in Europa. L’anno prima in una località alla periferia di Parigi era stata fondata la Quarta Internazionale. Dal Messico Trotsky aveva seguito tutti gli sviluppi e aveva collaborato a quello fu il documento di fondazione, il Programma di transizione. Tutto sommato quell’anno trascorse tranquillamente. La presenza del nipote dava gioia e vivacità alla routine quotidiana dei due nonni. La presenza di cari amici, delle guardie del corpo e dei segretari aiutavano a trascorre meglio le ore serali con conversazioni intelligenti e rilassanti. Certo di sottofondo albergava sempre la sofferenza vecchia e nuova per i familiari e gli amici deceduti, per l’ultimo figlio, Sergej, arrestato e deportato in Unione Sovietica e di cui non avevano più notizie. Era una sofferenza discreta, mai manifestata in modo eclatante in pubblico, vissuta nel privato da entrambi i genitori. Come il marito anche Natalja soffriva in silenzio, il suo carattere le impediva ogni “debolezza”, sfogava la tensione lavorando e dedicandosi a coltivare i suoi interessi artistici. Si occupava dell’amministrazione della casa, seguiva con attenzione i lavori di sistemazione dell’edificio, curava le piante nel giardino, controllava che la dieta ferrea a cui Trotsky doveva sottoporsi fosse rispettata, riceveva ospiti e visitatori che volevano parlare o conoscere suo marito. Nel frattempo, con ostinazione e ansia aspettava qualche conferma dalla Russia che Sergej fosse vivo. Durante il loro ultimo esilio in Messico i due coniugi si resero conto che attorno a loro si stava creando un terribile vuoto, una grande solitudine. La loro generazione, quella che aveva intrapreso la via della rivoluzione alla fine dell’800, era stata spazzata via dalla scena. Se era in buona parte sopravvissuta ai bagni penali dello Zar, alle deportazioni in Siberia, all’esilio, alla guerra civile dopo la rivoluzione russa, non altrettanto si poteva dire della repressione messa in atto da Stalin. Scomparendo dalla scena la generazione si era lasciata, nel ricordo dei pochi sopravvissuti, una scia dolorosa di affetti rescissi da morti violente, separazioni e rinnegamenti, prese di distanza in sincerità o malafede. Anche la parte migliore della nuova generazione, quella portata alla ribalta dalla rivoluzione del 1917, che comprendeva i figli e le figlie di Trotsky, tutti deceduti, era sotto attacco, calpestata e schiacciata. Certo, durante gli anni della loro ultima emigrazione, i due coniugi avevano conosciuto nuovi amici, ma ciò non era stato sufficiente a riempire quel vuoto, quella solitudine “storica” che albergava nell’animo, più forte di ogni pur sincera e spassionata nuova amicizia.
Primo dilemma: pubblico e privato
Pubblicamente Trotsky non si abbandonava alla disperazione, pur potendo contare, se lo avesse fatto, su elementi fondati e ragionevoli. Dichiarava di voler continuare a battersi con tutte le forze che gli restavano, ma nel profondo dell’animo non poteva fare a meno di pensare che nulla era più come una volta a cominciare dal suo “corpo”. Si sentiva vecchio, l’energia vitale si stava esaurendo, la stanchezza spingeva per prevalere sulla volontà. Tuttavia, ancora e forse più di prima ragione e logica bussavano prepotentemente alle porte del pensiero ponendo nuovi interrogativi circa il divenire storico e il posto che in esso avrebbero potuto occupare i rivoluzionari ispirati dal marxismo. Trotsky non si sottrasse a queste domande. Anzi, sovente fui lui stesso a cercarle tra le righe delle discussioni e delle analisi per esplicitarle ed esplorale fino in fondo. Lo fece a modo suo insistendo nel distinguere il suo destino personale e familiare, dall’analisi e dal giudizio politico perché, intuiva, quanto esso potesse influenzare l’interpretazione delle vicende sociali e politiche se considerate dal punto di vista soggettivo, date le vicende drammatiche vissute. Quando gli fu chiesto se non ritenesse che il suo destino personale fosse patetico e tragico, rispose negativamente, perché non intendeva affatto osservare il mondo da un punto di vista personale. Era il processo storico che imponeva, a secondo delle circostanze, di nuotare con la corrente favorevole o controcorrente. Rispetto a chi sottolineava la tragedia della sua vita personale e familiare, egli rispondeva: «non è così che va posta la questione. Tale tragedia non vive in me. La vera tragedia sta in chi tradisce se stesso, perché così si tradisce la vita. Io tale tragedia non l’ho vissuta, perché sono sempre e felicemente pronto a difendere le mia convinzioni. Non ho mai tradito me stesso» . Se un’idea è giusta essa è più forte della più potente polizia, diceva riferendosi alla montagna di accuse false costruita contro di lui dagli agenti di Stalin. Stalinismo, fascismo, nazismo, l’accumulo di tensioni che muovevano verso una nuova guerra mondiale, facevano sì che il futuro apparisse tetro, senza colori vivaci. Questa era la realtà e tanto peggio per i desideri se non coincidevano coi fatti. Di nuovo egli aveva davanti a sé la dicotomia che gli si presentò all’inizio del XX secolo, quando i fatti e gli eventi ponevano perentoria una richiesta di resa, poiché utopia, speranza, fede e amore parevano morte, la rivoluzione russa era fallita ed egli era stato deportato in Siberia. Era questo il futuro che si prospettava? No, aveva replicato allora «l’indomabile ottimista, “tu sei solo il presente”» , convito, per dirla con una delle tante sue metafore che l’umanità procedesse come certi pellegrini medievali che nel cercare la strada facevano due passi avanti e uno indietro.
Secondo dilemma: stalinismo e comunismo
In questo quadro di filosofia della storia egli inseriva e spiegava il suo atteggiamento di fronte alla barbarie rappresentata dai processi in corso a Mosca che testimoniavano il grado di involuzione del regime sorto dalla rivoluzione russa. Alla domanda se dai processi di Mosca traeva conclusioni pessimistiche circa il divenire del socialismo, rispose di non vedere alcun fondamento per il pessimismo. Niente era perduto, disse, «l’umanità si è sviluppata dalla scimmia al Comintern. Ed avanzerà dal Comintern al socialismo autentico» . Reagì con vigore a chi gli opponeva polemicamente la constatazione che i processi di Mosca fossero l’esito della rivoluzione d’ottobre e del bolscevismo. I processi di Mosca non disonoravano la rivoluzione, poiché erano il risultato di una controrivoluzione. Non disonoravano la vecchia guardia bolscevica, perché loro erano le vittime e non i carnefici. Tuttavia non poté fare a meno di chiedersi se quei processi segnavano l’involuzione definitiva della Rivoluzione russa, man mano che la tragedia della repressione poliziesca, della deportazione e dell’eliminazione fisica degli oppositori, andava definendosi in una “quantificazione” tragica. Trotsky era a conoscenza che in quegli anni erano state escluse dal partito più di mezzo milione di persone. Sapeva che molti di loro erano stati fucilati, gettati in galera, nei campi di concentramento, esiliati in zone lontane; sapeva che a queste centinaia di migliaia di persone si aggiungevano milioni di senza-partito. E non si limitava alla costatazione del fatto, avanzava commenti inquietanti circa il significato che in futuro avrebbero assunti termini quali “comunismo” e “socialismo”, se il processo degenerativo dello stalinismo non si fosse arrestato. Il danno che lo stalinismo stava provocando al movimento operaio e all’ideale socialista era peggiore dei colpi, pur tremendi, inflitti dal fascismo e dal nazismo -osservò- perché Stalin lo attaccava dall’interno: «non un solo principio resta integro; non c’è ideale che non venga macchiato. Le stesse parole socialismo, comunismo sono compromesse dal momento che sgerri, senza alcun controllo, con l’etichetta di “comunisti” chiamano socialismo il regime da essi imposto» . La ragione imponeva di non abbandonarsi alla disperazione, di continuare a battersi con tutte le forze che gli restavano per non abbandonare «la bandiera del socialismo nelle mani dei falsari!», di consegnarla “pulita” di falsificazioni e di orrori alle future generazioni, consapevole, come disse, che la lotta da sostenere riguardava l’avvenire dell’umanità, e sarebbe stata dura, lunga: «forse la verità trionferà sulle nostre ossa. Noi le apriremo la strada» .
Terzo dilemma: crisi di civiltà e rivoluzione
Ma il bilancio e il ragionamento non potevano contemplare solo l’esito involutivo della Rivoluzione russa, altri fenomeni pesavano sulle vicende storiche del primo dopoguerra: il fascismo si era affermato in Italia, in Germania, in Spagna. La rivoluzione fuori dall’Unione sovietica non solo non aveva trionfato (lasciandola sola, isolata in un paese arretrato), ma il movimento operaio di quei paesi, con le sue organizzazioni sindacali e partitiche, non era stato capace di impedire l’avvento di dittature reazionarie. Indebolito da queste sconfitte esso non aveva saputo e potuto impedire lo scoppio di una nuova guerra mondiale tra i due blocchi imperialisti, così come era stato incapace di impedire la Prima. La guerra in corso rappresentava lo sviluppo tragico delle contraddizioni insite nel modo di produzione capitalistico, un segno di decadenza e di incapacità di garantire la sua sopravvivenza, se non ricorrendo alla distruzione di forze produttive, socio-economiche e umane di vasta portata. La guerra come crisi di civiltà quindi che apriva il campo alla possibilità storica della rivoluzione socialista, quale forma economico-sociale superiore al capitalismo. La guerra dimostrava che la società non poteva più vivere su basi capitalistiche, quindi sottoponeva «il proletariato ad una prova nuova e forse decisiva. Se questa guerra provoca, come crediamo fermamente, una rivoluzione proletaria, essa deve inevitabilmente condurre al rovesciamento della burocrazia nell’Urss e alla rigenerazione della democrazia sovietica su una base economica e culturale assai più elevata di quella del 1918. […] Se tuttavia si ritiene che l’attuale guerra non provocherà una rivoluzione ma un declino del proletariato, allora non rimane che un’alternativa: l’ulteriore decadimento del capitalismo monopolistico, l’accentuazione della sua fusione con lo Stato e la sostituzione della democrazia dovunque sia rimasta in vigore, con un regime totalitario. L’incapacità del proletariato di prendere in mano la direzione della società potrebbe effettivamente condurre, in questa situazione, al sorgere di una nuova classe sfruttatrice dal seno della burocrazia bonapartista fascista. Ciò costituirebbe, secondo quanto possiamo comprendere basandoci su elementi indicativi, un regime di declino contenente i germi dell’eclissi della civiltà» . Interrogativi circa il futuro prossimo, alla luce degli scenari nuovi che la guerra mondiale permetteva di ipotizzare, furono tipiche degli ultimi mesi di vita di Trotsky. In quei mesi discutendo con i compagni americani, ipotizzò che l’assenza di una rivoluzione socialista nel corso o subito dopo la Seconda guerra mondiale avrebbe costituito la prova dell’incapacità del proletariato a fare la rivoluzione e a rovesciare la società capitalistica, il venir meno, quindi, della sua funzione storica. Ciò avrebbe obbligato a rivedere parte dei pronostici marxisti, e il programma del partito avrebbe dovuto tener conto di un nuovo assetto sociale mondiale caratterizzato dalla decadenza della civiltà, senza più possibilità di una rivoluzione socialista.
Quarto dilemma: il soggetto
La questione riguardava l’attendibilità del soggetto rivoluzionario, cioè il proletariato. Per alcuni l’esperienza storica era lì a dimostrare che non si poteva riporre speranza nella capacità del proletariato di assumere la guida di un processo di trasformazione sociale in senso socialista. Trotsky prese in seria considerazione questa ipotesi e, al fine di confutarla, la sviluppò fino alle estreme e logiche conseguenze. Il 25 settembre 1939, poche settimane dopo l’invasione tedesca della Polonia, affermò che se si riteneva il soggetto proletario incapace «di portare la società capitalistica fuori dal vicolo cieco in cui si trovava», allora la burocratizzazione dello Stato sovietico «sarebbe stata a sua volta la conseguenza dell’incapacità del proletariato stesso di far funzionare la società tramite il meccanismo democratico»; «se si adottasse questa concezione, vale a dire che si riconosce che il proletariato non avrebbe la forza di portare a termine la rivoluzione socialista, allora bisognerebbe concludere, che la burocrazia, intesa come ceto politico e sociale, nelle sue varianti di bonapartismo fascista e stalinista, prefigura una nuova classe sociale capace di «rimpiazzare la borghesia decadente come classe dominante su scala mondiale» . In tal caso, concludeva, «dovremo quindi riconoscere a malincuore che, se il proletariato mondiale dovesse realmente dimostrarsi incapace di compiere la missione storica che gli è stata affidata dal corso degli eventi, non rimarrebbe altro che riconoscere che il programma socialista basato sulle contraddizioni interne alla società capitalista si sarà risolto in un’utopia. E’ chiaro che si richiederebbe un nuovo programma minimo, per la difesa degli interessi degli schiavi della società totalitaria burocratica» . Non erano affermazioni da poco. Se il proletariato fosse stato rigettato indietro dovunque e su tutti i fronti, allora si sarebbe dovuto «porre la questione della revisione della nostra attuale concezione e delle forze motrici della nostra epoca, […] rivedere la prospettiva storica mondiale per i prossimi decenni, e forse per i prossimi secoli» . Erano interrogativi amari, ma non per questo negati, che mordevano nel suo pensiero e lo portavano a dire nel dialogo familiare con Natalja, che se tutto questo era vero, allora «bisognava ripensare tutto, assolutamente tutto» . Erano parole pronunciate per amore di polemica ma, come ha osservato Isaac Deutscher, «fino allora non aveva mai contemplato così da vicino la possibilità di un totale fallimento del socialismo» . Tuttavia oltre a questi interrogativi Trotsky non andò, rimasero domande isolate. Se fossero state qualcosa di più di semplici ipotesi avanzate per portare fino alle estreme conseguenze il filo logico di un ragionamento, se davvero fosse stato in procinto di compiere una svolta politica e analitica di quello spessore, allora tra le sue carte inedite si sarebbero dovuto trovare tracce consistenti. Appunti, note, schizzi o progetti di scrittura è quanto di solito si lascia dietro chi si appresta a rivedere una parte importante della sua concezione del mondo. Van Heijenoort, che fu per diversi anni segretario di Trotsky, era convinto che egli fosse sul punto di “fare la barba a Marx” e aveva pronto un progetto di libro su questo tema. Dovette ricredersi e rinunciare al suo progetto perché, quando quarant’anni dopo la morte, nel 1980 poté accedere al suo archivio non trovò alcun riscontro tra le carte del rivoluzionario e dovette limitarsi a segnalare, come ricordò, che «i suoi pensieri si spingevano più lontano di quanto fosse pronto a quel tempo a mettere sulla carta» .
Quinto dilemma: il difetto sta nel manico o in chi lo impugna?
Le sconfitte subite dal movimento operaio erano dovute all’inadeguatezza intrinseca dei lavoratori a governare e trasformare la società, oppure andavano addebitate ad errori di “comando”, di direzione politica che, come tali, potevano essere corretti? Se il difetto stava nella direzione politica e sindacale, allora il compito era quello di costruire nuovi partiti e una nuova Internazionale. Ma se, al contrario, l’insuccesso era il risultato di una debolezza intrinseca alla classe lavoratrice, allora bisognava prendere in considerazione che la concezione marxista del processo storico e del soggetto storico promotore della rivoluzione, andava rivista. Il marxismo si fonda sulla prospettiva che il socialismo sia attuato dal proletariato organizzato. Se questo non è vero allora il marxismo non è una concezione scientifica della storia, ma una forma di falsa coscienza, un’ideologia che induce «le classi oppresse e i loro partiti a credere di lottare per i propri scopi, mentre in realtà non fanno che promuovere gli interessi di una nuova, o magari di una vecchia, classe dominante» . Era l’incapacità del proletariato a essere forza egemone e dirigente del governo socialista e della lotta per la trasformazione sociale che produceva la burocrazia politica e sindacale? Quest’ultima era il riflesso del fatto che un proletariato incapace di diventare classe dirigente e dominante affidava a un ceto di “professionisti” il compito di guidarlo e di dirigere la società? Esistevano, si chiedeva Trotsky, prove storiche sufficienti ad avvalorare la tesi che la classe lavoratrice fosse incapace di abbattere il capitalismo e di trasformare la società? Lo sguardo a ciò che di recente era accaduto negli anni venti e trenta del novecento, - trionfo del fascismo, del nazismo del franchismo, lo stalinismo in Unione Sovietica, la persistenza di una vacillante democrazia borghese -, potevano indurre la generazione che aveva vissuto solo quelle esperienze a dubitare delle capacità politiche del proletariato. Era però uno sguardo superficiale e miope in quanto in primo luogo non vedeva la rivoluzione russa del 1917, la vittoria dei soviet, la nascita del governo sovietico. Si consideravano solo le sconfitte, dimenticando che esse vennero alla fine di un processo nel quale il proletariato, in Russia, come in Spagna, in Italia, in Germania, in Francia e in altri paesi ancora, aveva dimostrato, nel primo dopoguerra, una grande disponibilità alla lotta e alla rivolta. Infine, la sconfitta non doveva essere imputata alla classe lavoratrice ma ai suoi dirigenti, che si erano dimostrati incapaci di tradurre la sua forza sociale in processo rivoluzionario. Più in generale, Trotsky ribaltava completamente il ragionamento. Non bisognava partire dall’idea che le cause delle sconfitte subite risiedessero nelle «qualità sociali del proletariato stesso»; se così fosse, allora la situazione della società moderna «dovrebbe essere definita senza speranze» , perché nelle condizioni in cui la società capitalistica versava, - di crisi e di decadenza -, il proletariato non poteva crescere né numericamente né culturalmente. La questione andava posta in altro modo, mettendo in rilievo l’antagonismo esistente fra il bisogno oggettivo delle masse lavoratrici «di liberarsi del caos spaventoso del capitalismo, e il carattere conservatore, patriottico e profondamente borghese della direzione operaia tradizionale» . A ciò aggiungeva una serie di osservazioni metodologiche circa il rapporto tra direzioni politiche, classi sociali e composizione di queste ultime. La direzione politica «non riflette la classe direttamente e in modo lineare», nel caso delle classi subalterne e in particolare nei periodi di riflusso delle lotte e di reazione vera e propria, le direzioni politiche soccombono «inevitabilmente alla pressione della classe dominante» . Fuori da ogni facile schematismo dunque, anche per quanto riguardava il concetto di classe. La semplice definizione di questo concetto non è sufficiente all’analisi «perché la classe consiste di vari strati, passa attraverso differenti stadi di sviluppo, viene a trovarsi in diverse condizioni, è soggetta all’influenza di altre classi» . Un’analisi esauriente non poteva escludere questi fattori. Da un lato quindi Trotsky, trascinato dalla logica del ragionamento, si imponeva di considerare ogni ipotesi, traendone le implicazioni e le conclusioni più estreme e più azzardate; dall’altro rimaneva ancorato agli elementi sociali e storici che caratterizzavano la situazione del momento e su di essi scommetteva. La nuova guerra mondiale rompeva un quadro che si era andato consolidando nei due decenni precedenti. Disarticolava la staticità totalitaria cui sembravano destinati i regimi fascisti e lo stalinismo in quanto quei regimi di origine bonapartista erano solo fenomeni transitori, nati da una crisi sociale e politica acuta. Come tali quindi non potevano «essere una condizione permanente della società. Uno stato totalitario è capace di sopprimere le contraddizioni sociali durante un certo periodo, ma è incapace di perpetuarsi» nel lungo periodo. La guerra poi, riteneva, come in parte avvenne, avrebbe rimesso in movimento le classi lavoratrici, ridando fiato alla prospettiva di rispondere alle barbarie del conflitto con la prospettiva del socialismo. Insomma, tutti gli eventi che si stavano delineando nel mondo all’inizio del 1940 consentivano a Trotsky di prevedere che la possibilità oggettiva di una rivoluzione socialista era ancora matura.
Sesto dilemma: pessimismo o ottimismo storico?
I suoi pensieri non potevano non ritornare ad interrogarsi anche sullo sviluppo storico. L’ottimismo che lo aveva guidata fin dagli anni giovanili, aveva ancora ragione d’esistere? Nel rispondere a questa domanda bisognava in primo luogo impedire che i dati del presente influenzassero troppo e soggettivamente il giudizio. Sapeva che la psiche umana tende ad adattarsi al tempo in cui vive: «Essa è pigra e ama l’ipnosi della ruotine», tende alla conservazione dello status quo, senza fatti che elettrizzano la scena storica, il pensiero tende all’inerzia: «i grandi avvenimenti si creano all’intersezione di grandi cause. E queste ultime, indipendentemente dalla nostra volontà, si formano nel corso della nostra esistenza sociale. E qui sta la loro forza insormontabile. Noi non facciamo gli avvenimenti. E’ già tanto se li prevediamo» . Quando il periodo storico è ascendente tutto è più facile, anche per il pensiero politico, come osservò a suo tempo il rivoluzionario italiano Amadeo Bordiga: «Tutti sanno dirigersi quando si afferma la vittoria, ma pochi sanno farlo quando giunge, si complica e persiste la disfatta» . Quando si vive in un’epoca reazionaria il pensiero tende alla mediocrità, è meno ardito, meno penetrante, più incerto e insicuro: «la capacità di generalizzazione dell’analisi politica tende a scomparire: ogni problema se ne sta da solo, come un ceppo in un bosco tagliato» . Nei periodi reazionari, quando la controrivoluzione avanza sicura, passando di vittoria in vittoria, le classi subalterne tendono a perdere la loro consistenza e sostanza acquisite in precedenza. La sconfitta opera sul piano della composizione della classe, disaggrega, divide, separa, la indebolisce ideologicamente assieme alla sua avanguardia che appare isolata, poiché il livello di consapevolezza culturale e politica arretra per ritornare a tappe che si pensavano superate da tempo. Allora chi intende mantenersi all’interno di un quadro marxista di riferimento, sente il bisogno di riscoprire il marxismo “autentico”, di ritornare a Marx, poiché considera il marxismo fallito nelle varie forme storiche in cui politicamente e organizzativamente esso si è manifestato. Quindi a ritroso si comincia a spulciare il bolscevismo, per poi accorgersi che il marxismo era già fallito nella forma socialdemocratica. Così si approda alle opera di Marx e di Engels. Riscoprire i classici, ritornare all’origine del proprio pensiero di riferimento è sempre positivo, ma sovente è un’operazione ibrida che si compie «senza uscire dal proprio ufficio e senza neanche togliersi le pantofole» . Come passare da questo lavoro di riconsiderazione ai compiti politici che premono? I decenni di lotte teoriche e politiche, seguite alla morte di Marx (1883) ed Engels (1895) impongono anch’essi di essere riconsiderati. Se non lo si fa è difficile indicare una nuova via: «tutto si riconduce al semplice consiglio di ristudiare Il capitale. Nulla da obiettare. Ma anche i bolscevichi hanno studiato Il capitale e non a occhi chiusi E questo tuttavia non ha impedito la degenerazione dello Stato sovietico né la messa in scena dei processi di Mosca. Allora che fare?» . Da questo percorso può emergere e riconsolidarsi una forte avversione alla società capitalistica, ma ciò da solo non è sufficiente, manifesta solo un atteggiamento negativo verso quel tipo di sistema socio-economico, occorre andare oltre, «accettare tutte le conclusioni pratiche della concezione rivoluzionaria in campo sociale» . Dentro questi assiomi si muovevano le sue riflessioni nel corso degli ultimi anni della sua vita. Vivendo in un periodo controrivoluzionario il suo ottimismo di fondo non venne meno, si stemperò un po’ assumendo la forma di pessimismo immediato e a breve termine, che non inficiava però il suo ottimismo nel lungo periodo. Ora il processo storico gli sembrava rappresentabile simbolicamente non con una linea retta ma con una spirale. I fatti storici si accumulavano in cerchi a spirale che salivano lentamente e faticosamente la scala storica. Se la storia si avvita come una spirale allora alcune fasi di arretramento, di ritorno, sono inevitabili. Si avanza certo, ma con più fatica, perché la storia è sempre stata mossa da tensioni drammatiche, non da un quieto e sereno progresso, senza colpi di scena e avventure nefaste.
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