domenica 12 giugno 2011

Culture e atteggiamenti dei giovani nei due bienni rossi

Me ciami Brambilla e fu l'uperari. Culture e atteggiamenti dei giovani operai negli anni delle rivolte
di Diego Giachetti




Me ciami Brambilla e fu l'uperari
lauri la ghisa per pochi denari
e non ho in tasca mai
la lira per poter fare un ballo con lei..

Mi piace il lavoro ma non sono contento
non è per i soldi che io mi lamento
ma questa gioventù
ci avrei giurato che mi avrebbe dato di più
(I Giganti, Proposta, Abula, G.B. Martelli, 1967)


Contrariamente ad una tradizione consolidata e più conosciuta tra chi si occupa di storia dei movimenti e del ’68 in particolare, quella che lo paragona con la rivoluzione dei popoli europei del 1848, questa volta il parallelismo è posto tra i due bienni rossi della storia italiana del Novecento intendendo per essi gli anni 1919-1920 e 1968-1969. Si tratta di mettere in campo un confronto e un’ipotesi di ricerca e interpretativa che ha avuto meno “successo” della precedente, la quale, però ha un grosso merito, nonché un evidente limite che attiene all’anima duplice del secondo biennio rosso . Il merito consiste che nell’assumere la categoria di biennio rosso anche per il ’68-69 si tende ad accentuare l’attenzione sulla presenza e il protagonismo operaio (a maggior ragione se lo si vuole confrontare col primo biennio rosso), elemento che spesso è passato in secondo piano negli studi che hanno accentuato l’attenzione sul ’68. Il limite, invece, nasce proprio dal merito: scegliendo un’ipotesi simile si corre il rischio di sottovalutare il protagonismo studentesco o genericamente giovanile e protestatario. Si può evitare di cadere nella scolastica contrapposizione e separazione tra un 68 studentesco e un ’69 operaio ricorrendo alla categoria di generazione, secondo l’uso che ne fa la sociologia. La pregnanza di tale categoria appare abbastanza evidente e utile quando si tratta di descrivere fenomeni ed eventi che interessano la società italiana a partire dal secondo dopoguerra, più difficile è il riscontro con quanto accade nel periodo dei primi decenni del novecento. Qui la generazione non va oltre il dato anagrafico comune; per il resto profonde e incolmabili sono le differenziazioni tra i giovani a secondo delle famiglie di provenienza, del ruolo che svolgono (operai, studenti, contadini, braccianti), della provenienza regionale e dell’essere nati e cresciuti in città o in campagna. Culture, mentalità, stili di vita, comportamenti e atteggiamenti differenziano quindi quel mondo giovanile. Il conflitto generazionale, che pure ha caratterizzato il secolo appena concluso , quando si manifesta, è tutto interno alla classe d’appartenenza (i giovani borghesi contro i padri, i giovani operai contro quelli anziani in fabbrica), senza alcun legame trasversale.


Giovani all’inizio del XX secolo
Negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, lo sviluppo della scolarizzazione e alcuni mutamenti interni all’ambito familiare, indotti dal processo d’industrializzazione e dall’inurbamento, costituirono la base materiale su cui poggiò la propensione a considerare l’adolescenza come una fase della vita a se stante, separata dall’infanzia e dall’età adulta. Essa si prolungò, per gli adolescenti figli di famiglie benestanti, nella giovinezza, intesa come fase dell’età in cui si frequentavano le scuole secondarie e le università, prima di accedere al mondo del lavoro e alla costituzione di una nuova famiglia, entrambi elementi che, ancora oggi, segnano la fine della gioventù e l’ingresso nella classe degli adulti. Non a caso nell’Ottocento furono elaborati alcuni modelli di cultura giovanili che si riferivano ai movimenti a cui aderivano i giovani delle classi medio alte. Si trattava del movimento studentesco, che si sviluppava nei collegi e negli altri istituti della scuola secondaria e di quello romantico, che esprimeva la ribellione dei giovani nei confronti degli adulti attraverso il rifiuto dei modelli culturali dei padri e il valore nuovo assegnato al sentimento dell’assoluto. Dal punto di vista quantitativo e anagrafico però questi movimenti non rappresentavano l’intera popolazione e, neanche, si potevano dire interpreti delle aspirazione e delle problematiche generazionali, perché troppe e profonde erano le differenze che separavano la “classe” dei giovani in varie categorie: gli operai inurbati, i contadini, gli studenti, e poi ancora, all’interno di ognuna di esse, i ragazzi dalle ragazze.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento gli studenti di scuola secondaria erano circa 165.00 in Francia, 170.000 in Germania, 80.000 in Austria, 25.000 in Spagna, 50.000 in Italia: quindi una minoranza d’individui d’origine borghese. In Italia, tra gli studenti universitari solo il 7% proveniva da classi sociali inferiori rispetto ai vari strati che componevano la borghesia . Il resto della popolazione giovanile italiana d’inizio secolo era composto da soggetti che lavoravano fin dalla più tenera età. Sotto i 14 anni il 19,4% dei maschi e il 15,7% delle femmine lavorava; la percentuale saliva rispettivamente all’88,7% e al 75,3% per la fascia d’età fra i 15 e i 20 anni. Nell’industria mineraria il 27,7% degli occupati aveva meno di 21 anni, in quella tessile il 59,2% della manodopera femminile e il 29,6% di quella maschile era sotto i 21 anni. Molto diffuso era il lavoro minorile nelle industrie milanesi e torinesi .
La legge del 1902 introdusse il divieto del lavoro ai minori di 12 anni, il divieto del lavoro notturno ai minori di 13 anni, il divieto dei lavori pericolosi ed insalubri per le fanciulle minorenni e i maschi al di sotto dei 15 anni; per lavorare in miniera i ragazzi dovevano aver compiuto 14 anni; a 15 anni potevano accedere a qualunque lavoro. L’obbligo scolastico nel 1904 fu innalzato all’intero ciclo elementare, ma esso era fortemente evaso dalle famiglie operaie e contadine più povere.
Non solo è impossibile definire in quel contesto storico e sociale una categoria di giovani che abbracci esperienze culturali, sociali e relazionali così diverse, ma anche il termine giovani operai, come ha notato Michelle Perrot, indicava “nel XIX secolo una realtà difficile da cogliere”:

Gli operai sono esclusi dai licei e dalle università. Bastioni della gioventù borghese […] non beneficiano, come i giovani borghesi, di quel periodo di latenza e di formazione che consente una propria socievolezza e perfino un’autonoma espressione. L’ingresso precoce nel mondo del lavoro assorbe tutte le loro energie senza che possano godere dei diritti degli adulti .

L’impossibilità di circoscrivere nel tempo la giovinezza operaia limitava la portata del concetto di generazione poiché l’identità del giovane operaio si fondava prevalentemente non sull’età, ma sul mestiere, sul lavoro, sull’appartenenza territoriale (campagna, città), sulla famiglia, sulla classe sociale, sul gruppo o la banda di quartiere.
Nello studio già citato, Michelle Pierrot individuava alcuni passaggi nella cronologia che dall’infanzia portavano all’età adulta nelle classi lavoratrici. La separazione tra infanzia e giovinezza avveniva all’incirca tra gli 11-12 anni, momento in cui i bambini figli di famiglie operaie accedevano alla prima comunione e/o conseguivano la licenza elementare e iniziavano l’apprendistato presso le botteghe artigiane, nelle industrie grandi o piccole, nelle miniere. Seguiva l’adolescenza, cioè un periodo di vita compreso tra i 12-13 anni e i 16-18 anni, in cui il giovane lavoratore era ancora tutelato da una serie di leggi che limitavano gli orari e i carichi di fatica per i minori. Dopo l’adolescenza iniziava un periodo durante il quale i giovani operai usufruivano di maggiore libertà, la giovinezza vera e propria, che si concludeva con l’ingresso pieno e completo nel mondo degli adulti al momento del matrimonio.
Il lavoro era l’elemento che distingueva i giovani operai dai poco numerosi giovani studenti figli della borghesia; esso separava anche nettamente l’infanzia dall’adolescenza e dalla giovinezza. Le differenze tra maschi e femmine nel gruppo sociale dei giovani operai, erano nette. Gli adolescenti erano inviati dalle famiglie prevalentemente a fare gli apprendisti nei laboratori artigiani o gli operai nelle fabbriche, le ragazze continuavano in maggioranza ad andare a servizio nelle dimore borghesi, con l’eccezione di quelle assunte come nel settore dell’industria tessile. Lo sviluppo industriale dei primi anni del Novecento, stimolato pochi anni dopo dalla guerra mondiale, mise in crisi la struttura patriarcale e plurigenerazionale del lavoro nelle campagne che regolava il lavoro minorile e liberò giovani braccia per l’industria bellica. Nell’Ottocento l’assunzione dei giovani avveniva tramite la famiglia. Il giovane operaio era l’aiutante dei genitori o dei fratelli maggiori, faceva parte di una squadra e come tale era assunto, lo stesso salario era pagato non direttamente al giovane lavoratore, ma al caposquadra, cioè il genitore o il fratello maggiore. Le forme tradizionali dell’apprendistato, che precedentemente, avevano regolato l’accesso dei giovani al mestiere attraverso il passaggio dell’apprendista dalla famiglia d’origine alla bottega artigiana entrarono in crisi e vennero meno i legami di parentela e di “adozione” che regolavano le assunzione negli opifici e nelle aziende agricole.
La guerra fece aumentare la manodopera industriale giovanile non qualificata e introdusse forme d’apprendistato moderno. Ad esempio, in alcune industrie di punta della produzione italiana, gli apprendisti tornitori passarono dal 4,6% del 1915 al 36,6% del 1918 all’Ansaldo di Genova, mentre il 46% degli operai alla fabbrica delle armi di Terni e il 27% all’Alfa Romeo nel 1918 avevano meno di 20 anni .
Tra i giovani d’origine contadina inurbati e impiegati nella nascente industria prevalevano forme di cultura giovanile che avevano ancora similitudini con i gruppi tipici dei villaggi contadini. Si trattava delle bande di strada, composte da individui d’età compresa tra i 14, 20 e 25 anni.
La devianza giovanile si rivelò come fenomeno sociale alla fine del primo decennio del Novecento e poi soprattutto nel corso del conflitto mondiale. Tra l’opinione pubblica si diffuse l’immagine di una “gioventù pericolosa”, dedita al vagabondaggio, alla piccola delinquenza, all’alcolismo, alla prostituzione. Un pericolo nuovo, quello generazionale che sostituì in parte, sui giornali della borghesia e nell’immaginario collettivo, quello precedentemente attribuito al nascente proletariato industriale, “ormai diventato classe laboriosa e integrata nel sistema di seconda industrializzazione europea” . Le società europee erano percorse dalla paura della propria gioventù, in special modo di quella operaia:

spiccano tre figure simboliche: l’apprendista, il teppista, la giovane lavorante in sartoria. […] Analogamente allo studente borghese, l’apprendista è un adolescente ribelle […] vivendo ai margini della legalità, praticando il borseggio o lo scippo, sempre pronto a partecipare agli assembramenti, alle manifestazioni, ai tafferugli, alle barricate .

La fabbrica, più del vecchio laboratorio artigianale, costituiva l’occasione e il luogo di azioni collettive e rivendicative che avevano per protagonisti i giovani, attraverso la partecipazione alle lotte di massa con gli operai adulti, oppure con scioperi indetti da loro stessi, e non sempre considerati dai lavoratori più adulti. In Italia, in particolare nelle file del bracciantato, dei lavoratori stagionali, degli avventizi, si raccolsero gli adolescenti e i giovani più combattivi, ad alta mobilità, sradicati ormai dai legami, delle consuetudini, dalle regole della cultura familiare e plurifamiliare contadina. I partecipanti ai disordini e ai saccheggi nelle campagne romagnole durante la Settimana rossa del giugno 1914 erano in gran parte giovani dai 18 ai 30 anni, a volte persino adolescenti di età compresa tra i 12 e i 16 anni. La partecipazione agli scioperi nell’area milanese di ragazzi sotto i 18 anni oscillava all’inizio del secolo tra il 20 e il 30% del totale degli scioperanti, con una maggior propensione all’azione tra i 14 e i 17 anni . Gli scioperanti del maggio 1917 che misero in subbuglio Gallarate, Busto Arsizio, Lecco, Milano, erano prevalentemente giovani, e furono definiti “furie” da Filippo Turati , espressione che segnalava l’aggressività dei comportamenti, il desiderio di rivalsa contro i padroni, i ricchi, i signori borghesi, i “vecchi”, la guerra in corso.
Non solo il dirigente socialista guardava con sospetto e diffidenza a simili manifestazioni di lotta, le stesse organizzazioni sindacali erano spesso ostili nei confronti dell’impulsività mostrata dai giovani nel proclamare scioperi. In almeno la metà dei casi, le Camere del lavoro non entravano nelle trattative per la loro soluzione e lasciavano che il padronato sostituisse i giovani con manodopera adulta; si prodigavano piuttosto per imporre il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie di mestiere e d’età tra i lavoratori, e per precise procedure nella contrattazione .

Una generazione travolta dalla guerra e dal fascismo
La guerra diede impulso allo sviluppo dell’apparato produttivo, la richiesta di manodopera mobilitò nuovi strati della popolazione, si intensificarono i movimenti migratori verso le città determinando un ulteriore accrescimento della popolazione urbana. Aumentò l’impiego dei giovani e delle donne. Benché gli scioperi nelle aziende che producevano per l’esercito fossero illegali le agitazioni non cessarono. La tendenza alla crescita degli scioperanti che si era verificata tra il 1911 e il 1913 fu interrotta, ma il loro numero restò elevato. Si registrò un nuovo protagonismo giovanile e femminile nelle agitazioni, perché entrambi i soggetti, per ragioni anagrafiche e di sesso non erano sottoposti al ricatto di essere inviati al fronte in caso di insubordinazione sul posto di lavoro. I minorenni e le donne furono i protagonisti delle manifestazioni contro la guerra e per il pane che si svolsero nelle maggiori città industriale europee a partire dal 1916, a Berlino come a Torino. Centotrentamila minori, di cui sessantamila nelle fabbriche e il resto nei cantieri militari a ridosso del fronte, risultarono mobilitati per far fronte alle esigenze della produzione industriale e della logistica durante la grande guerra .
Gli anni precedenti la grande guerra avevano visto affermarsi nella retorica e nella propaganda il concetto di gioventù associato al patriottismo, al nazionalismo e all’interventismo. In Italia giovani studenti e intellettuali furono i protagonisti della propaganda interventista nell’anno della neutralità (1914-1915). Analogamente movimenti giovanili in Germania e in Inghilterra ponevano l’equazione tra gioventù e valori nazional-patriottici e nello stesso tempo tra giovinezza e libertà dalla società borghese e dalla famiglia. L’entusiasmo per guerra fu la conseguenza della percezione di essa “come liberazione dall’ordinamento esistente” da parte di giovani studenti figli della borghesia; così, quando l’Italia entrò in guerra, il disprezzo per i giovani studenti, che l’avevano voluta, da parte dei soldati al fronte andò aumentando, come dimostra questa strofa di una canzone, Addio padre e madre addio, cantata al fronte:

Sian maledetti quei giovani studenti
che hanno studiato e la guerra voluto
hanno gettato l’Italia nel lutto
per cent’anni dolor sentirà

La guerra spaccò le generazioni e divise i giovani polarizzandoli attorno a scelte estreme e rivoluzionarie: il fascismo della prima ora e la rivoluzione bolscevica. La guerra aveva innescato una “crisi di civiltà” che aveva diviso, separato le epoche e le generazioni, come scriveva il giovane intellettuale Adriano Tilgher su «Il Resto del Carlino» del 1° settembre 1919:

Il padre al fronte, la madre al campo o all’officina, i fanciulli abbandonati a se stessi. Costumanze e tradizioni secolari infrante di colpo. Gli adulti fecero l’abitudine agli spettacoli di violenza e di sangue, i giovani, venuti su senza educazione domestica, se ne inebriarono […] i giovani han fatto la guerra e contratto l’abito della violenza.

Nell’immediato dopoguerra la questione giovanile s’imponeva presso l’opinione pubblica, come testimoniano le rappresentazioni della crisi della famiglia borghese nella cultura letteraria e teatrale europea coeva e il sempre più frequente abbinamento del fattore generazionale alla tipologia del mutamento politico. Una folta schiera giovanile di ex combattenti, reduci, arditi, soldati, ufficiali, disoccupati, studenti animavano la vita sociale del paese in quegli anni e fornivano la base materiale per il diffondersi di un groviglio di ideologie anarchiche, ribellistiche, revanchiste postbelliche, dominate da uno spirito rivoluzionario scontento per le politiche caute dei socialisti italiani, unite all’estetismo futurista e al bel gesto dannunziano, sommandosi alla protesta per la disoccupazione intellettuale, e anche in parte al nazionalismo di destra .
Era in questo brodo primordiale sorgeva il primo fascismo, quello movimentista e rivoluzionario, non ancora regime reazionario, nei cui Fasci di combattimento confluivano molti giovani quasi tutti ex combattenti o studenti che erano stati interventisti. I fascisti, ha osservato Eric J. Hobsbawn,

erano i rivoluzionari della controrivoluzione: lo si percepiva nella loro retorica, nel loro appello a quanti si consideravano vittime della società, nel loro richiamo a una palingenesi sociale […] I movimenti fascisti avevano in sé elementi propri dei movimenti rivoluzionari nella misura in cui tra i loro aderenti vi erano persone che volevano una trasformazione fondamentale della società, spesso in senso anticapitalistico e antioligarchico. .

Per comprendere quel fermento sociale e generazionale da cui il fascismo attingeva è opportuno riferirsi a due eventi dei primi del Novecento italiano: il movimento futurista e l’impresa fiumana.
Fin dalle sue origini il futurismo aveva esaltato la guerra, la violenza, l’aggressività, la gioventù e la ribellione generazionale; difatti nel Manifesto del futurismo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti e pubblicato su «Le Figarò» il 20 gennaio 1909 si proclamava il rifiuto del passato e dei vecchi da parte dei “giovani e forti futuristi”. Lo storico Renzo De Felice ha insistito perché si riflettesse con serietà sul ruolo che i futuristi ebbero all’interno del movimento fascista nel suggerire e poi nell’avvalorare l’immagine della rivoluzione in marcia: un movimento al quale i futuristi fornirono i primi quadri o nei cui confronti ricoprirono un ruolo attivo di fiancheggiamento .
L’impresa fiumana, capitanata da Gabriele D’Annunzio, fu la palestra di ideologie giovanilistiche che diede vita a un’esperienza politica e comportamentale, dove tutti i miti dell’eroismo, del vitalismo, dell’estetismo, del militarismo rivoluzionario presero forma in modo esaltato e spettacolare. Il giovane virile, in divisa, con spirito di corpo, con spreco fisico e morale, in perenne eccitazione ideale e materiale era perfettamente coniato –scrive Omar Calabrese- era diventato stabile il mito del giovane come espressione di un non controllabile “disordine”; a Fiume –sottolinea Claudia Salaris, s’incontra un “magma ribollente di stati d’animo, di concezioni della vita, di aspirazioni al rinnovamento, tra idealismo, utopia, anarchia e vitalismo festaiolo, una risposta alle inquietudini e la malessere di una generazione che aveva fatto la guerra e sentiva di essere diversa da quella dei padri per il modo di concepire l’esistenza, i rapporti umani e sociali, l’organizzazione del potere” .
Il nascente movimento fascista trovò nei giovani una componente di rilievo. Si trattava di uno strato sociale medio basso, composto di soldati e di giovani che, dopo il novembre 1918, erano frustrati, disorientati e incapaci di ritornare ad una vita normale e pacificata. Il 57% dei fascisti italiani della prima ora erano ex militari, il 13% dei membri del movimento fascista italiano nel 1921, quindi prima della marcia su Roma, erano studenti, un quarto degli aderenti ai fasci aveva meno di 21 anni, e 146 su 220 deputati fascisti eletti nelle elezioni politiche del 1924 avevano meno di quarant’anni, la metà circa degli squadristi caduti nelle azioni fasciste avevano meno di vent’anni .
L’esistenza di un rapporto stretto tra guerra, giovani, classi medie e ascesa al potere del fascismo non sfuggiva agli osservatori contemporanei del fenomeno. Mario Missiroli, in un saggio del 1921 intitolato Il fascismo e la crisi italiana, sottolineava l’abbandono della gioventù a se stessa, causato dalla guerra, il disorientamento seguito alla sua fine da parte di giovani tornati dalle trincee delusi per le speranze mancate. Così pure in una serie di articoli pubblicati su «La rivoluzione liberale» tra il 25 settembre e il 16 ottobre 1923, con lo pseudonimo di Grildrig, Alberto Cappa aveva attribuito alla prima fase del moto fascista “l’impronta dell’avvento sulla scena politica della generazione giovanissima”, “degli adolescenti dai quindici ai vent’anni”; fu questa generazione che si gettò nel fascismo, “costituendone il grosso, partecipando alla lotta politica e dandovi dal 1920 al 1922 il carattere di guerra civile […] e che contribuì in gran parte a imporre al fascismo quel carattere violento che ne ha caratterizzato la prima fase” . Il tema della giovinezza fu prontamente assunto dal fascismo che ne fece un tratto distintivo presentandosi come il movimento prima e il partito poi in cui confluivano ardori, passioni di una gioventù ribelle ai vecchi scemi partitici, sindacali e parlamentari. figli della guerra non ancora corrotti dall’opportunismo e dalle ambizione dei padri. D’altronde, già fin dal 1914, lo stesso Benito Mussolini nell’articolo di presentazione de «Il Popolo d’Italia», il 15 novembre 1914, si rivolgeva ai “giovani d’Italia, ai giovani d’armi e giovani di spirito, ai giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di fare la storia”.
Il fascismo si pose come elemento di congiunzione tra il combattentismo, il reducismo e il giovanilismo. Alla mitologia combattentista, all’arditismo propose, dopo la fine della guerra, lo sbocco dello squadrismo. Lo squadrista assunse le vesti del giovane, entusiasta, ardente, violento, pragmatico e risolutore; una continuazione del clima esasperato della guerra quando la violenza poteva perfino essere salutata per l’estetica bellezza purificatrice delle armi, intorno alla quale sarebbe stata creata una nuova liturgia: gli incendi, il sangue, il culto dei morti e il cameratismo apparivano riti propiziatori, di purificazione e di espiazione .
Il fascismo si appropriò di questa origine costruendo immediatamente un’immagine autorappresentativa; così, ad esempio, Giuseppe Bottai in un articolo comparso sulla rivista «Critica fascista» del 1926 e significativamente intitolato I giovani nel fascismo, riprendeva la tesi del fascismo come rivoluzione dei giovani “contro la supremazia degli anziani e dei vecchi”, attribuendo al movimento la rottura, con la violenza, della “monotona successione delle generazioni”, spostando “il cambio fra una generazione e l’altra ai posti di comando tra i venti e i trent’anni con un anticipo di almeno due lustri”.
Negli anni del regime il fascismo si caricò dell’attribuzione d’interprete dell’epoca giovane, confondendo spesso

la rappresentazione retorica o l’uso politico e ideologico più a meno accorto (la politica o l’immagine dei giovani) con la più complessa condizione giovanile. […] Non esisteva infatti una sola gioventù per giunta tutta rappresentata nell’ambito studentesco e borghese-urbano, anzi! Ne esistevano piuttosto diverse, specialmente in rapporto all’origine sociale, e se quella citata si presentava come la più dinamica e comunque la più rumorosa, nel paese non era certo la più numerosa” .

Tale precisazione è importante perché chiarisce che il fascismo non può essere identificato solo con la protesta giovanile, sarebbe riduttivo, infatti, leggerlo, interpretarlo e connotarlo solo come conflitto generazionale. Più interessante e produttiva ci pare sia l’ipotesi che legge il giovanilismo del primo dopoguerra come reazione alla mancata integrazione sociale e politica di una generazione a causa dell’evento bellico. La mancata integrazione contribuisce a spiegare i contrasti, le tensioni e le divisioni che pure animavano il movimento operaio e socialista nel primo dopoguerra; anch’esso era percorso dalle contraddizioni suscitate dalle

nuove fasce di lavoratori avviati al ciclo produttivo, più indipendenti dalle vecchie e tradizionali procedure di apprendistato sotto l’autorevole e oculata sorveglianza del lavoratore anziano e artigiano o altamente qualificato, e piuttosto sensibili alla sostanza di una nuova domanda sociale di tipo metropolitano, [da parte] di militanti più restii o scettici ai processi di intermediazione parlamentare o sindacali tradizionali ,

Anche il “vecchio” movimento operaio subiva la critica dei nuovi militanti, disillusi e avversi nei confronti della mediazione politica e parlamentare e della contrattazione sindacale tradizionale. Disagi, malumori, borbottii che sfociarono, sull’onda dell’entusiasmo per la rivoluzione Russa e della delusione seguita al mancato sbocco rivoluzionario del primo biennio rosso, nella costituzione del Partito Comunista d’Italia.

Giovani operai e mito della rivoluzione
Le trasformazioni del processo di produzione industriale, il conseguente inurbamento di migliaia di nuovi proletari, l’introduzione di sistemi seriali di produzione subirono un’accelerazione con l’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Terminata la guerra la composizione della classe operaia risultò cambiata rispetto a quella riscontrabile all’inizio del XX secolo. Gli stabilimenti erano cresciuti nel numero dei dipendenti, avevano introdotto nuove tecniche produttive grazie alla meccanizzazione di diverse operazioni lavorative che avevano ridotto in parte il numero degli operai di mestiere e fatto aumentare quello degli operai generici, che erano soprattutto giovani. L’assunzione di queste nuove leve di lavoratori, solitamente poco qualificati, aveva ridisegnato l’organigramma disciplinare e produttivo dei reparti con “l’affidamento di compiti di supervisione e coordinamento agli operai provetti”, potenziando così il ruolo degli operai di mestiere” i quali si erano convinti di essere in grado di controllare, dirigere e gestire il processo produttivo, come la “contesa post bellica intorno al controllo e alla rivendicazione dell’autogestione”, fino all’occupazione delle fabbriche, mise in evidenza .
Dietro questo percorso politico e di lotta vi era una cultura del lavoro, condivisa in parte tanto dagli imprenditori quanto dal movimento operaio, caratterizzata dai valori della professionalità, del produttivismo, dell’industrialismo. La filosofia del lavoratore socialista e sindacalizzato predicava per l’operaio serietà, rigore e stile sobrio di vita. In fabbrica egli doveva essere puntuale e scrupoloso sul lavoro, diligente, professionalmente abile ed esperto, coerente nelle convinzioni e nei comportamenti, fuori dalla fabbrica doveva condurre una vita irreprensibile, sobria, regolare: lavoro, famiglia, partito e sindacato. In questo senso il socialismo e il sindacalismo si erano posti, assieme all’etica produttiva e della disciplina predicata dal capitalismo industriale, come educatori di un proletariato diviso tra lavoratori generici e di mestiere:

i primi erano sottoccupati, instabili e fluttuanti tra le occupazioni agricole e industriali, tra il lavoro e gli espedienti di cui viveva il sottoproletariato urbano; gli operai di mestiere, all’inizio, poco avvezzi alla regolarità della prestazione lavorativa .

Il modello comportamentale proposto ai lavoratori si adattava bene a certi strati operai di mestiere, “ma meno facilmente poteva essere fatto proprio dagli operai generici, non foss’altro per via della loro instabilità, del basso reddito e delle precarie condizioni di vita”; e poi le nuove leve erano “poco inclini al produttivismo” perché questa faceva appello a una disciplina del lavoro altrettanto rigida seppure autoimposta in nome di ideali rivoluzionari .
Nell’insieme il proletariato scese con generosità, partecipazione e speranze in lotta dando vita alla stagione del biennio rosso del 1919-1920, durante la quale il numero degli scioperanti salì a 1.555.000 (di cui 505 mila in agricoltura) nel 1919 e a 2.314.000 (di cui 1.046.000 in agricoltura) nel 1920. La fase conclusiva di questo biennio, culminata con l’occupazione delle fabbriche, costituì per il proletariato e la tradizione rivoluzionaria “una grande promessa nonostante la sconfitta; mentre per la borghesia capitalistica rappresentò motivo per un aspro spirito di vendetta” .
Confluirono in quel biennio motivazioni, esperienze, ideologie rivoluzionarie molteplici. Per anni la memoria del movimento operaio italiano dell’occupazione delle fabbriche ha rilevato e consacrato il mito di una rivoluzione, per usare le parole di Sorel, “fatta da un proletariato di produttori che hanno acquisito la capacità economica, l’intelligenza del lavoro e il senso giuridico sotto l’influenza stessa delle condizioni di produzione”; inoltre, giustamente, è stato osservato che con quell’evento la rivoluzione in Occidente sposta “il suo centro dalla piazza, secondo il modello consacrato dal 1848, alla fabbrica. Ed è questo mito che anzitutto conferisce all’occupazione del settembre 1920 la sua possente forza di richiamo” .
Il biennio rosso era certamente l’espressione di attese di profonde trasformazioni sociali e politiche che attraversarono il movimento dei lavoratori al termine della grande guerra ma, nell’attesa di realizzare quegli obiettivi le lotte operaie erano mosse nel concreto da rivendicazioni quali il rifiuto delle norme disciplinari, della gerarchia aziendale, delle multe per i ritardi, dei permessi, dell’aumento della produzione e quindi del lavoro prestato a cottimo, della gerarchia aziendale, dalla richiesta di mezz’ora di pausa fino al “sabato inglese”.
Una dimensione rivendicativa che era volta a ricavare più tempo libero dal lavoro fuori e dentro la fabbrica, lasciando più tempo per le pause da sprecare in chiacchiere, in socialità o nella propaganda politica e sindacale. Questa richiesta di maggior tempo libero accomunava giovani e vecchi operai, anche se l’uso che ne facevano fuori dalla fabbrica era diverso; gli operai più anziani tendevano a cercarsi un secondo lavoro, quelli più giovani invece subivano la lusinga dei primissimi richiami all’uso consumistico del tempo libero. Già si stava delineando, allora, nella dimensione di massa del conflitto di classe e nel suo perdurare, la richiesta di “ampliare gli spazi del tempo libero e della socialità all’interno dei luoghi di lavoro”, caratteristica evidentissima, soprattutto in quello che qui chiamiamo il secondo biennio rosso, e non incompatibile con le “le tematiche del controllo o dell’autogestione, che potevano essere reinterpretate in termini di maggior libertà dalle costrizioni del lavoro”
Gli anni rivoluzionari che seguirono gli eventi russi del 1917, e che videro protagonisti i giovani, se non i giovanissimi, non potevano non avere ripercussioni tra i partiti e i sindacati del movimento operaio, guidati da dirigenti che non avevano partecipato alla guerra. Nuovi dirigenti, che la guerra invece l’avevano vissuta si stavano preparando. Da essi vennero i militanti dei partiti comunisti nati tra il 1919 e il 1921.
Lo stesso partito bolscevico negli anni della guerra civile fu composto prevalentemente da giovani. Nei primi mesi del dopo rivoluzione, più della metà dei suoi membri erano d’età inferiore ai 30 anni e il 90% d’età inferiore ai 40 anni. Con la fine della guerra la Federazione Giovanile Socialista (FGS) divenne un’organizzazione di massa passando dai 25 mila iscritti del 1919 ai quasi 56 mila del 1921, anno decisivo per l’opzione tra il rimanere nel socialismo riformista europeo o l’aderire idealmente alla rivoluzione sovietica e organizzativamente all’Internazionale comunista. Il 90% dei giovani socialisti italiani scelse la seconda via creando, come stava avvenendo per altre organizzazioni giovanili socialiste nazionali –nei paese Bassi, in Spagna, in Austria e nei paesi scandinavi- la base militante dei nuovi partiti comunisti .
Che quella fosse una generazione destinata a vivere, e provare a dirigere, trasformazioni rivoluzionarie, lo aveva già intuito Antonio Gramsci scrivendo sull’edizione piemontese dell’ «Avanti!» del 13 luglio 1916:

Siamo dei giovani vecchi. Vecchi per il cumulo enorme di esperienze che in poco tempo abbiamo raggruzzolato, giovani per il vigore dei muscoli, per il desiderio irresistibile di vittoria che ci investe. La nostra generazione di vecchi giovani è quella che dovrà realizzare il socialismo .

Quattro anni dopo, però, il dirigente sardo in procinto di fondare, assieme ad altri, il Partito Comunista d’Italia, avrà di che lamentarsi per la scarsa considerazione che gli adulti socialisti avevano dei giovani militanti:

Gli adulti [nel partito socialista] non solo si disinteressano, non solo trascurano, ma in parte anche volutamente tengono in minor conto il movimento dei giovani. Nelle assemblee essi sono sempre un poco i tollerati […] l’organizzazione dei giovani fu sempre tenuta un poco in disparte nel PSI .

Così scrivendo si augurava che il nascente PCd’I avrebbe fatto di più e meglio.

Giovani nella seconda metà del XX secolo
Alla vigilia del secondo biennio rosso, nel 1966, i giovani dai 14 ai 25 anni erano più di otto milioni e mezzo e rappresentavano il 16, 1% della popolazione. Cinque milioni circa lavoravano dall’età di quindici anni. Si trattava di lavori che non sempre erano tutelati dalla normativa vigente, erano mal retribuiti oppure retribuiti al di sotto delle tabelle previste dalla legge. Un milione e duecentomila giovani erano studenti. Poco meno di un milione erano alla ricerca della loro prima occupazione. Circa trecentomila erano emigrati all’estero alla ricerca di un lavoro seguendo le orme dei padri. Secondo un’inchiesta pubblicata sulle pagine di un’allora diffusa rivista giovanile, il settimanale «Big» , emergeva un’immagine omogenea del mondo giovanile, non più nettamente distinto e separato secondo la provenienza di classe e familiare o tra studenti e lavoratori. Tutti, indistintamente, cercavano sempre più la compagnia dei coetanei. Il 79 % dichiarava infatti di sentirsi a proprio agio solo con i coetanei. L’81% dichiarava che i loro ricordi migliori erano legati ad avvenimenti di cui erano partecipi dei coetanei. All’opposto, invece, su cento adulti, sessantuno avevano tra i ricordi più belli certe giornate passate col padre o con la madre. Una generazione dunque che, come aveva osservato Elio Vittorini, si formava e si educava

in linea orizzontale, attraverso l’esempio reciproco, attraverso il confronto tra pari delle esperienze collaterali, insomma tra loro stessi, al contrario di noi delle generazioni precedenti, che ci siamo formati secondo linee verticali, sia attraverso il confronto con i padri, con il passato, con le tradizioni, sia attraverso gli strazi dell’esperienza interiore .

Infine, questi giovani dichiaravano di sentirsi più in sintonia con i loro coetanei stranieri che non con gli adulti italiani. L’opinione che avevano gli adulti dei giovani era pessima e severissima. L’87% definiva i teenagers una “generazione perduta”, molle, indifferente ai grandi valori e ai grandi ideali, superficiali, arroganti, presuntuosi; ripensando a quando erano stati giovani loro il 93% di questi adulti si considerava migliore dei loro figli. Più dell’80% considerava i giovani dei privilegiati e degli ingrati perché non riconoscevano ai genitori i sacrifici che avevano fatto e il 90% riteneva che il maggior difetto dei giovani fosse “la smodata passione per la musica leggera”.
La generazione adulta e matura che si affacciava a quel decennio provava un certo disagio e una notevole delusione guardando ai giovani. Quella “prima generazione” , la cui identità stava formandosi negli anni del benessere post-bellico, appariva loro disimpegnata politicamente, attenta alle mode americane nel campo cinematografico, musicale, dell’abbigliamento e del godimento del tempo libero, da trascorrere al bar, gettonando canzoni nei juke box dal ritmo incomprensibile (se non irritante) per i “vecchi”. I giovani sembravano lontani dall’impegno e dalla partecipazione alla vita politica dei partiti, soprattutto quelli di sinistra. Quella del secondo dopoguerra era descritta, in una ricerca sociologica, come una gioventù apatica, indifferente e decisamente integrata. Alle soglie degli anni Sessanta i giovani apparivano caratterizzati da tre aspirazioni tutte molto “mediane”, un po’ banali, prive di progettualità storica e politica. Si trattava dell’aspirazione alle “tre m”: un mestiere sicuro, una macchina, una moglie, da amare “senza troppe complicazioni, che s’accontenti e condivida una vita ‘tranquilla’, ‘serena’, ‘sana’” .
Vi erano quindi ragioni contingenti e storiche perché le forze della sinistra italiana guardassero con sospetto ai giovani del secondo dopoguerra. L’esaltazione del giovanilismo fatta dal fascismo determinò negli antifascisti una diffidenza forte verso l’uso della categoria di generazione, giungendo a negare che potesse esistere una questione giovanile. In questo senso Benedetto Croce già nel 1943 e nel 1944 segnalava la non esistenza di una questione giovanile, di un conflitto generazionale. “I giovani –scriveva- debbono essere unicamente aiutati a diventare uomini […] dell’immaturità non si può fare una professione”; e ancora: “l’unico diritto dei giovani, e dovere assieme, è, semplicemente, di cessare di essere giovani, di passare da adolescenti ad adulti” . Così, gli antifascisti contrapposero alle mitologie delle generazione della guerra e dei giovani una critica che negava il concetto stesso di generazione. Per un lungo tempo la sinistra ritenne infatti, come scriveva ancora nel 1960 Norberto Bobbio in risposta a un’inchiesta della rivista «Il Paradosso», che il termine generazione indicasse “una situazione sociologicamente e politicamente poco rilevante”, e che “ i problemi politici non fossero problemi generazionali, ma di individui o di gruppi” .
Quando la protesta giovanile si manifestò, anche in forme violente, la sinistra, memore dell’esperienza del primo novecento -quando parte della gioventù sbandò verso l’interventismo, lo squadrismo, il combattentismo, “il diciannovismo”- si trovò in difficoltà a interpretare e capire quanto stava accadendo e, soprattutto nei commenti a caldo, ricorse all’uso di categorie analitiche quali “teppismo”, “provocazione”, “nuovo fascismo”.
Un esempio eclatante fu rappresentato dai fatti di Piazza Statuto a Torino del luglio 1962 che videro i giovani, battezzati gli “scamiciati” dal quotidiano «La stampa», protagonisti di una manifestazione, finita in scontri con la polizia. La sinistra e il mondo sindacale, accusati di essere gli organizzatori della manifestazione e, in particolare i comunisti, di aver retto la regia degli scontri, reagirono prendendo le distanza dalla “teppa”, accusando “provocatori” e “neofascisti” di essersi infiltrati nella manifestazione allo scopo di provocare disordini, arrivando a definire quei giovani i “teddy boys di Valletta”, scaricati in piazza da “lucide Giuliette T, spider e sprint” guidate da individui che li “assoldavano” nei bar e nella periferia al prezzo di “1200 lire” . Due anni prima i “ragazzi delle magliette a strisce”, protagonisti della rivolta giovanile del luglio 1960 contro il governo Tambroni, potevano ancora essere riassunti nella categoria di combattenti democratici e antifascisti e in tal modo poteva essere data loro una patente di moralità ideale al loro comportamento. I giovani di Piazza Statuto, invece, uscivano da schemi interpretativi resistenziali precostituiti, piuttosto essi rappresentavano, nel loro comportamento violento, rissoso, nella loro ricerca del “casino per il casino”, il prototipo italiano delle moderne rivolte giovanili che già avevano interessato la società inglese, quella francese e tedesca occidentale. Una rivolta che, come scrive lo storico Massimo Teodori:

era l’espressione violenta e primitiva degli strati marginali esclusi dalla partecipazione a quei beni materiali che la prosperità induceva a consumare e, al tempo stesso, il prodotto della frammentazione sociale e del deterioramento psicologico: ambiente urbano degradato, facile possibilità di circolazione senza integrazione in un territorio proprio, rottura degli assetti familiari tradizionali, rabbia contro l’ostentazione dei beni a disposizione del pubblico, povertà di fronte al benessere, mancanza di grandi cause in cui riconoscere la propria identità .

Giovani e adulti in fabbrica
Nel 1961 la CGIL organizzava una Conferenza Nazionale della Gioventù Lavoratrice per avviare una riflessione che si imponeva al sindacato in quanto, nel corso del 1959 e del 1960 i giovani erano stati in prima fila, “con slancio e combattività [e] audacia”, nelle lotte per i rinnovi contrattuali di quel biennio, esprimendo una “aspirazione alla libertà e alla democrazia dentro e fuori i luoghi di lavoro, una grande volontà unitaria e una diffusa tendenza a forme di vita associativa profondamente nuove”, e perché occorreva iniziare a “colmare l’innegabile distacco che si è determinato in questi anni tra una grande parte dei giovani lavoratori […] e il movimento sindacale organizzato” . Una conferenza quindi che registrava con favore la scesa in campo nelle lotte di fabbrica di una nuova generazione operaia, ma che, contemporaneamente, segnalava come quella partecipazione non si traducesse in un rafforzamento dell’organizzazione sindacale nei luoghi di lavoro: i giovani erano disposti alla lotta, ma non si iscrivevano al sindacato, non erano disponibili ad un rapporto continuativo con esso. E anche quando i giovani si interessavano al sindacato sembravano non dare alcuna importanza alla divisione sindacale, divisione che, come scriveva Luciano Lama, “aveva rappresentato un elemento essenziale di un certo ripiegarsi in se stessi delle generazioni precedenti”; quei giovani “non avevano miti” e non se la sentivano di militare in un sindacato per “tradizione, fedeltà o disciplina” .
I giovani operai, metallurgici milanesi che avevano partecipato con determinazione alle lotte del 1961 non erano o non si erano iscritti al sindacato e, nemmeno, partecipavano alla sua attività. Ad esempio, alla lotta per il rinnovo del contratto all’Alfa Romeo di Milano e della Siemens, avevano partecipato i giovani operai, in parte meridionali di recente immigrazione, che fino al giorno prima erano “privi di ogni interesse politico definito”, ed in quell’occasione, invece, furono “nelle prime file della lotta” e il loro contributo fu “determinante”, e anche in quel caso, però, il sindacato non si era radicato tra questi giovani operai . A Torino i “contrattisti a termine”, quasi tutti meridionali e giovani, erano stati gli animatori della lotta alla Lancia nel 1962; essi erano mossi da una coscienza impulsiva contro il clima di fabbrica, il lavoro a catena, giudicato noioso, snervante e monotono, contrari quindi a trattare aumenti di salario in base all’aumento dei ritmi della lavorazione o alle ore di straordinario. Per loro stare in fabbrica era una fatica che rubava le ore della vita, quelle da dedicare, nel tempo libero, allo svago e al divertimento. Non a caso, un giovane operaio aveva dichiarato al settimane «Vie Nuove» dell’11 giugno 1964:

dalla fabbrica si esce sempre troppo tardi quando si ha vent’anni. Ed ogni minuto trascorso fuori dalle mura dell’officina sembra essere un minuto rubato al padrone e conquistato al mestiere di essere giovani.

Alla Fiat di Torino i giovani furono tra i protagonisti del finalmente riuscito sciopero del 19 giugno 1962. Un avvenimento eccezionale, scrisse il dirigente comunista Renzo Gianotti, perché non si trattava più di avanguardie isolate, ma di una “minoranza di massa”, composta non solo dal vecchio nucleo operaio che aveva resistito alla repressione, ma da “gruppi di giovani, non collegati in buona parte alle organizzazioni sindacali, riunitisi in forme spontanee tra loro” . Con quest’ultima affermazione, il dirigente politico torinese sottolineava un aspetto nuovo, per altro già messo in luce nella citata Conferenza giovanile del sindacato CGIL, - laddove si parlava di “ forme di vita associativa profondamente nuove” - quello del formarsi di aggregazioni informali e amicali, una sorta di “gruppi dei pari” giovanili ai quali assegnavano il compito informativo e formativo della loro personalità, contrapponendolo a quelle istituzioni tradizionali che lo avevano esercitato in precedenza: la famiglia, la scuola, la chiesa, l’oratorio, le sedi dei partiti politici. E quando lo sciopero alla Fiat, proclamato per il 23 giugno 1962, riuscì pienamente e vi aderirono 60 mila lavoratori, si dovette marcare il ruolo esercitato dai giovani operai.
Erano soprattutto giovani operai senza qualifica, provenienti dalle campagne del sud o del nord che, inizialmente, avevano accettato senza problemi la loro nuova condizione lavorativa. Ora cominciavano a ribellarsi, erano “i più aggressivi nella protesta”, il loro scontento si “manifestava secondo le forme del puro operaismo protestatario: non sono né rosso, né bianco, né giallo [dicevano] questi giovani, sono soltanto un operaio e sono stufo” . Operai che non avevano legami con le forme organizzative tradizionali e con le generazioni dei vecchi operai professionali e di mestiere e, in quanto giovani, partivano da una situazione meno deludente di quella degli operai anziani, non si portavano dietro quel senso di sconfitta e di arretramento tipici di chi aveva vissuto le grandi speranze dell’immediato secondo dopoguerra:

i giovani sono avvantaggiati dal fatto di non essersi mai posti come prospettiva immediata, concreta, quella della presa del potere. Le delusioni non possono essere grandi perché non ci sono state le grandi speranze .

A questa differenza di natura storico-politica si aggiungeva la variazione nella composizione della classe operaia sotto l’influenza dello sviluppo capitalistico, concentrato soprattutto al Nord, che introduceva in modo sistematico la catena di montaggio nel processo produttivo. Ciò significava un aumento dei lavoratori dequalificati, con nessuna prospettiva di carriera professionale, costretti ad un lavoro monotono e ripetitivo, che si imparava in poche ore, con la prospettiva di doverlo fare per molti anni della propria vita. Finivano alla catena soprattutto i giovani nuovi assunti, molti dei quali erano meridionali. All’interno dei luoghi di lavoro si andava determinando una situazione contraddittoria tra operai anziani e giovani. Lavorare alla catena, svolgere un lavoro dequalificato e monotono, senza prospettive, era cosa ben diversa dall’essere un operaio qualificato, di mestiere, capace di svolgere operazioni che davano soddisfazione rispetto al proprio saper fare. L’operaio dequalificato era portato a disprezzare il lavoro e il proprio ambiente di lavoro; viveva il lavoro come sofferenza, deprivazione, mancanza di senso al proprio agire e alla propria intelligenza. L’operaio qualificato invece, svolgendo mansioni creative, dove poteva in qualche misura applicare la propria intelligenza e capacità al processo produttivo, aveva maturato un rapporto diverso col proprio lavoro, trovandovi spesso una gratificazione personale e professionale. Diversi articoli riguardanti la condizione dei giovani operai in fabbrica segnalavano la funzione “educativa” della catena di montaggio nel determinare la presa di coscienza dei giovani verso la fabbrica e il lavoro. Da Milano a Venezia a Torino, la catena di montaggio diventava il simbolo dello sfruttamento e della fatica del lavoro:

La grande massa dei giovani, dei non qualificati, soprattutto i giovani immigrati, entrano nei reparti adibiti alla lavorazione della grande serie. Ed è proprio qui, alla catena, che di più si fa sentire il peso della riorganizzazione, l’attacco alla condizione operaia, il supersfruttamento che sostiene lo sviluppo economico .

I giovani che lavoravano alla catena vivevano quindi con fastidio e con rabbia il proprio lavoro, volevano in qualche modo liberarsene, riducendo al minimo il tempo e la fatica da consumare in fabbrica. Vivevano il tempo del lavoro con sofferenze, perché erano ore tolte alla vita, prive di significato, monotone, le quali, per di più entravano in conflitto col tempo libero rimanente dopo il lavoro. Se la fabbrica si prendeva tutte le energie fisiche e psichiche, anche la gratificazione che derivava dalla fruizione del tempo di non lavoro risultava ridotta. Per questa ragione, ad esempio, i giovani operai torinesi accettarono senza protestare la riduzione dell’orario di lavoro di quattro ore, operata dalla Fiat nel 1964 a causa della crisi congiunturale, anche se ciò comportava una perdita di circa ottomila lire sulla busta paga di fine mese: i giovani erano contenti, gli anziani no . L’importante per loro era lavorare meno, pur di rimanere meno in fabbrica e avere più tempo libero erano disposti a perdere salario. Similmente, quattro anni prima, quattrocento operai dell’Alfa Romeo di Milano tutti giovani e non iscritti al sindacato, tranne quattro, avevano scioperato compatti contro i ritmi di lavoro imposti da una produzione a cottimo con standard troppo elevati che sfibrava i lavoratori. Contro la proposta dei sindacati di chiedere aumenti salariali per monetizzare la crescita dei carichi di lavoro, essi avevano continuato la protesta motivandola in questo modo: “quello che chiediamo è un lavoro meno duro, non vogliamo essere stracci la sera quando vediamo la nostra ragazza” . Adriano Celentano con la sua canzone Il problema più importante, di Clark, Beretta, Del Prete del 1964, aveva fotografato benissimo questo problema, ovvero quello di arrivare alla sera con energie sufficienti per uscire, andare per balere a cercare una ragazza, “un’anima buona/ che si accompagni con noi”.
Quella dei giovani operai nelle fabbriche italiane era una sensibilità diversa rispetto a quella dei più anziani: “un modo diverso di vedere le ripercussioni che ha il trascorrere la giornata in fabbrica” . Gli operai più anziani erano ormai rassegnati a quel ritmo di vita, con annessi cottimi e condizioni lavorative a rischio per la salute, disposti tutt’al più a lottare per monetizzare aumenti di produzione e salute, spinti da impellenti esigenze economiche che non consentivano loro di rifiutare il lavoro straordinario. L’interesse dei giovani, invece, era opposto, volevano innanzi tutto salvaguardare la propria salute, difendere la propria dignità, non essere trasformati in rottami umani nel giro di qualche anno di lavoro alla catena di montaggio:

il giovane non si è ancora lasciato integrare da un processo produttivo disumano, pone ancora un’accanita resistenza per salvarsi, per conservare la propria individualità e i propri interessi. Cerca di sottrarsi il più possibile dalla logica e dal mondo della fabbrica considerando ogni rivendicazione da questo angolo di visuale .

Gli operai anziani in fabbrica erano a volte un mondo a sé, incapace di dialogare con le nuove generazioni operaie. Nel corso di una tavola rotonda giovani operai e operaie di una fabbrica di Sant’Antonino di Susa in provincia di Torino si lamentavano di una profonda differenza di mentalità tra loro e gli adulti. Un operaio diceva: “mi considerano un bamboccio e non parlano di politica con me perché dicono che non ne capisco niente”, Francesca invece dichiarava: “io con gli operai adulti non ho mai avuto da discutere perché sono uniti tra di loro, solo tra adulti, e noi giovani ci considerano bambine e lasciano perdere” e Fausta concludeva: “io con gli adulti non ho mai avuto a che fare, credo che con gli adulti non si possa ragionare” .
Molti di questi giovani operai dequalificati erano meridionali e sul luogo di lavoro vivevano una contraddizione duplice: erano giovani, quindi con esigenze diverse dagli adulti, erano e si sentivano discriminati linguisticamente e socialmente dagli operai professionali, quasi tutti autoctoni: milanesi, genovesi, torinesi, da più generazioni. Le loro esperienze di “lotta di classe”, le relative delusioni e sconfitte subite e le rispettive forme di organizzazione erano diverse da quelle vissute dagli operai settentrionali e non si sentivano per nulla riscattati o integrati nella nuova società dal lavoro che svolgevano:

Una generazione di origine meridionale, sradicata dalla propria cultura contadina, spesso con la memoria delle grandi sconfitte del dopoguerra, priva di quella della Resistenza partigiana, abituata a considerare il lavoro “fatica” e non emancipazione […] non ricavava alcuna gratificazione dal “ruolo operaio” .

Oltre al distacco generazionale, tra giovani operai e adulti si affermava una differenza di mentalità, di esperienze, di costumi che accentuavano gli attriti e aumentavano le difficoltà di collegamento tra operai e tra questi e le organizzazioni sindacali nello stesso ambito lavorativo. Questa nuova ondata di operai dequalificati era il frutto del miracolo economico italiano quando, come nel caso della Pirelli Bicocca di Milano furono assunti molti giovani operai comuni per sostituire lavoratori specializzati più anziani. L’assunzione era la conseguenza dell’“ammodernamento” del processo produttivo, con l’introduzione della catena di montaggio, e mirava all’eliminazione di un vecchio ceto operaio nel quale forte era ancora la presenza di militanti comunisti e della CGIL. Ma proprio questi operai, assunti sulla base di motivazioni ideologiche e politiche ben precise, diventarono i protagonisti di una nuova stagione di lotta. Una lotta che cominciava a contestare lo stesso sindacato fino a contrapporvi un’altra forma di organizzazione operaia in fabbrica. Dopo l’accordo del 1964, soprattutto tra gli operai più giovani la distanza dalle posizioni del sindacato era aumentata. Essi accusavano i sindacati di aver firmato un pessimo accordo. All’inizio del 1968, quando si riaccese la lotta dentro la Pirelli, i primi reparti a scendere in lotta furono quelli dove le condizioni di lavoro erano peggiori, più faticose e pericolose per la salute, e in quei reparti vi lavorava un’elevata percentuale di recenti assunti. Furono loro ad animare la vita del costituendo Comitato Unitario di Base (CUB) della Pirelli, organismo nel quale confluirono pure iscritti ai sindacati in polemica con essi. Le rivendicazioni di questo organismo di base partivano da un postulato che ribaltava quello dei sindacati. Mentre questi ultimi partendo dalle condizioni di lavoro vigenti rivendicavano indennità contro i rischi fisici per la salute o aumenti salariali nel caso di crescita dei ritmi produttivi, il CUB muoveva dai bisogni degli operai, salute, salario, orario, e su questa base rivendicava la riorganizzazione del processo produttivo. .
La combattività di questo nuovo proletariato giovanile e meridionale, che divenne uno dei protagonisti delle lotte del fatidico autunno caldo del 1969, trovava modo di manifestarsi già nella seconda metà degli anni Sessanta portando alla ribalta forme di lotta interne ed esterne alla fabbrica che colpivano per il loro carattere radicale, estremista e decisamente poco timoroso delle eventuali conseguenze repressive delle forze dell’ordine o del padronato. Si possono citare due esempi emblematici. Il primo relativo alla giornata di lotta dell’8 ottobre 1966 a Trieste contro il piano governativo che prevedeva la chiusura di alcuni impianti e fabbriche. In diverse piazze e vie della città i dimostranti fronteggiavano la polizia, innalzavano barricate per impedire i caroselli della celere, rispondevano con pietre ai lacrimogeni, mettevano vetture tranviarie di traverso sulla strada con le gomme forate, per bloccare l’accesso alla polizia. Gli scontri duravano tutto il giorno e fino a notte inoltrata. In prima fila raccontavano le cronache, c’erano giovani lavoratori, e a poco valevano gli appelli, rivolti dei militanti più vecchi del PCI e della CGIL, per cercare di incanalare e controllare il loro slancio e l’aggressività. Circa due anni dopo a Valdagno nel corso di una dura contesa tra gli operai e il proprietario della fabbrica Marzotto, il 19 aprile del 1968 si verificavano durissimi scontri che si conclusero con 47 arresti e 4 feriti gravi, tutti di Valdagno e nella maggior parte giovani, di età compresa tra i 17 e i 25 anni. Anche a Porto Marghera e alla Fiat di Torino si verificavano i primi sintomi di lotte operaie con i giovani lavoratori protagonisti. Il 7 marzo del 1968 aveva successo lo sciopero indetto dalla sola CGIL per le pensioni. A Torino, alla Fiat, come raccontava un corrispondente, lo sciopero riusciva per merito dei giovani operai che trascinavano nella lotta quelli più anziani e incerti:

I giovani operai hanno svolto quasi dappertutto una funzione d’avanguardia (in specie a Mirafiori e alla Lingotto), hanno organizzato il picchettaggio con “gruppi di punta” che si trascinavano dietro tutti gli altri operai e la classe operaia più “vecchia”. Questi giovani non hanno nessun privilegio di anzianità da difendere, non subiscono il ricatto del posto di lavoro, non hanno nessuna paura della polizia e sono stati sulla breccia davanti ai cancelli dal mattino fino al turno di notte .

Il problema delle pensioni toccava solo in parte e indirettamente i giovani operai Fiat, l’agitazione era più che altro un pretesto per ribellarsi, perché serpeggiava una rabbia che si alimentava di tante ragioni, alle quali se ne aggiungeva un’altra, inedita per il movimento operaio, quella dei capelloni in fabbrica. A partire dal 1966 sui giornali per i giovani si susseguivano le denunce di giovani che si sentivano discriminati o minacciati perché portavano i capelli lunghi. Da Bergamo si segnalava che in una fabbrica era stato dato dal datore di lavoro un ultimatum a tutti i capelloni: “o pelati o disoccupati”, da Bologna un diciannovenne diceva di se stesso: “ho i capelli lunghi, una camicia folle, cappellino nero con decorazioni, occhiali con lenti a specchio e medaglione al collo. Sono operaio specializzato e odio disperatamente il mio lavoro” . Giovani buoni per lavorare e per morire a causa del lavoro, ma non buoni per il diritto di voto o per andare a ballare nelle sale per i giovani perché minorenni, denunciava un editoriale di «Ciao Big»:

Francesco è morto a Torino a 15 anni fulminato in un cantiere da una scarica elettrica. Toni è morto suicida a Milano a 17 anni perché aveva perso il lavoro. Entrambi erano giovani emigrati dal Sud. […] I giovani che non hanno compiuto 18 anni non possono andare a ballare, però crepare sotto il treno o morire in un cantiere edile sì. Dovremo vergognarci di parlare dei giovani come oggetto di studio e come valido mercato da conquistare .

Così, nel ’68, mentre era in pieno svolgimento la rivolta degli studenti, nelle fabbriche italiane era già più che mai evidente il profondo disagio che serpeggiava tra i giovani operai. Un disagio che, come notava Giorgio Bocca, investiva tutto: “l’organizzazione del lavoro, i metodi della lotta di classe, gli strumenti di quella politica”. Anche se l’accordo sindacale conteneva aspetti soddisfacenti, permaneva, secondo il giornalista, una situazione di predisposizione alla lotta “che nessun aumento di salario” poteva attenuare; la lotta aveva fatto loro assaporare il gusto per l’azione, la sperimentazione di un potere di contrattazione con i capi, “la eguaglianza delle ore calde, il vedere impaurita l’organizzazione” . Tutte esperienze che sarebbero diventate utilissime e preziose di lì a pochi mesi, quando esploderà il conflitto operaio nelle fabbriche, l’anno dopo il ’68.

Classe operaia e generazioni operaie
Nel 1968 e nel 1969 il tema dell’occupazione delle fabbriche, notava Paolo Spriano presentando la ristampa del suo lavoro- tornava vivissimo; “più che il tema sono le fabbriche che vengono nuovamente occupate dagli operai in lotta “e le università dagli studenti”, scriveva . L’analogia era evidente, quindi possibile e volutamente cercata da un movimento di lotta che aveva un assoluto bisogno di trovare le sue radici storiche nell’antagonismo di classe e nella conflittualità sociale. Due aspetti però differenziavano il secondo biennio rosso dal primo: la presenza di un consistente e autonomo movimento studentesco e giovanile, orientato, a differenza del 1919-20, a sinistra, deciso a uscire dalle università e dalle scuole per ricercare l’incontro con i lavoratori; un più marcato ed evidente conflitto generazionale che portava linfa e rivendicazioni nuove all’interno della classe operaia, intrecciandosi con la rivolta generazionale in atto e il fenomeno dell’immigrazione di giovani operai meridionali.
Il movimento studentesco ricercò fin da subito un rapporto con la classe operaia. Il convegno nazionale che si tenne alla Facoltà di Architettura di Venezia l’8 e il 9 giugno 1968 e al quale parteciparono un migliaio di persone, compresi circa duecento operai, provenienti da Torino, Milano, Bologna, Padova, Venezia, Trieste, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Pisa, testimoniava la crescente diffusione della problematica operaia all’interno del movimento studentesco e la necessità di cercare in questo ambito nuove strade di intervento. D’altronde, già nella mozione conclusiva del convegno sulle lotte studentesche, che si tenne a Trento il 6 febbraio 1968, si affermava che, se era corretto rivendicare l’autonomia del movimento, essa non doveva diventare autonomia dalle lotte degli studenti medi e “in particolare dalle lotte operaie”:

le forme di questo collegamento tra lotte studentesche e lotte operaie vanno sperimentate [...] Esse pongono comunque la necessità di un salto politico, dal “collegamento” alla convergenza di esse, sia a livello tattico che strategico

L’avvicinarsi della scadenza del contratto per i metalmeccanici sollecitava ancor di più il movimento studentesco a trovare obiettivi programmatici e rivendicativi comuni con la classe operaia. Queste prese di posizione del movimento studentesco non devono indurci nell’errore di ritenere che la conflittualità operaia che si manifestò nelle fabbriche italiane nel ’68 e soprattutto nel ’69 fosse dovuta ad una turbativa portata dall’esterno da avanguardie politiche dei gruppi estremisti e dagli studenti del movimento. Scartata quindi l’ipotesi del ’68 studentesco quale detonatore della ripresa della conflittualità operaia in fabbrica, va invece segnalato che le lotte operaie ripartivano nelle fabbriche sulla spinta di contraddizioni e di esigenze maturate sui posti di lavoro e fuori dalla fabbrica.
In quelle lotte operaie si esprimevano comportamenti e rivendicazioni, prodotte da una nuova composizione della classe operaia italiana dovuta all’immissione di giovani meridionali e all’aumento degli operai comuni rispetto a quelli di mestiere. Se è vero che il ciclo di lotte nella primavera del ’68 non era stato aperto dagli operai comuni, giovani e meridionali, ma da quelli specializzati, per lo più militanti sindacali o con esperienze di militanza sindacale o di partito, tuttavia nel breve volgere di pochi mesi la preponderanza degli operai comuni, immigrati, giovani, caratterizzò il conflitto, le rivendicazioni sindacali e la sua estensione su tutto il territorio nazionale .
Secondo Ezio Tarantelli le lotte del biennio ’68-69 erano anche il prodotto di uno scontro generazionale . Muovendo dall’assunto che in generale i conflitti che interessarono tutte le società industriali nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso erano il risultato di una contraddizione tra la divisione tecnica del lavoro ereditata dai primi decenni del Novecento –che determinava scale gerarchiche, differenziazioni salariali e normative della forza lavoro da allora segmentata- e la nuova domanda di base della generazione post-bellica e di quella nata dopo la Grande Depressione. Storicamente veniva a costituirsi una popolazione attiva nei paesi industrializzati composta da due grandi blocchi generazionali. Il primo comprendeva la generazione nata prima del ’29, che non aveva partecipato ai processi di trasformazione delle forze produttive e sociali che seguirono la grande depressione: sviluppo dell’educazione di massa, dei mass media, migrazioni di forza lavoro. Il secondo blocco generazionale raggruppava quelli nati dopo la grande depressione e quelli nati nel periodo bellico, partecipi del boom scolastico, consumistico e dei massa media. Proprio queste due ultime generazioni furono quelle maggiormente coinvolte nel fenomeno d’inurbamento, tipico del secondo dopoguerra, e dell’immigrazione. Nelle fabbriche la contraddizione generazionale trovava la sua base nelle sedimentazioni gerarchiche e lavorative ereditate dalla fase precedente dello sviluppo dell’impresa industriale novecentesca. Gli appartenenti al primo blocco generazionale, quelli dai quarant’anni in su, apparivano omologati non solo nei termini della minore educazione, informazione (mass media) ma anche sulla scala gerarchica del controllo istituzionale e burocratico. Appartenevano in prevalenza ai livelli più elevati della carriera, apparivano come quelli che dirigevano o stavano “a livelli superiori della scala gerarchica” , ereditavano il controllo istituzionale e burocratico delle aziende di medie e grandi dimensioni, la scala gerarchica e, assieme, l’autoritarismo. Le nuove leve operaie subivano questa eredità ormai inutile e in contrasto coi cambiamenti avvenuti nell’organizzazione produttiva e nell’istruzione di massa. Non a caso quindi nelle lotte di quel biennio era forte la motivazione antiburocratica e antiautoritaria, anche tra i giovani operai e non solo nei movimenti studenteschi e giovanili.
Anche il sindacato, modellato su una composizione operaia, professionale ed ideologica, messa in discussione dai sommovimenti strutturali e culturali in corso, entrò in crisi. Di fronte ai giovani, nella grande maggioranza meridionali, le strutture sindacali che avrebbero dovuto accoglierli non sempre erano capaci di farlo. Né i giovani erano mossi da atteggiamenti costruttivi, anzi spesso erano portati a mettere in discussione, assieme alle strutture aziendali, rispetto alle quali si sentivano estranei e che non soddisfacevano le loro aspettative, anche “i vecchi quadri sindacali” i quali erano spesso “portati, un po’ per l’ideologia produttivistica, un po’ per un fatto naturale in operai con un forte contenuto di mestiere, ad identificarsi con l’azienda” . Così accade che quando i giovani operai comuni cominciarono ad imporsi come protagonisti delle lotte, il sindacato si trovò privo di una strategia in grado di recepire gli obiettivi egualitari ed antigerarchici e senza una struttura adatta a dirigere le nuove forme di conflitto permanente e articolato. Il sindacato pagava uno scarso radicamento nelle industrie e tra i giovani assunti:

L’adesione al sindacato era molto scarsa nelle grandi fabbriche. Un ampia ed omogenea quota di classe operaia, i giovani operai comuni per lo più immigrati, era di fatto fuori dall’organizzazione sindacale, anche se talora iscritta a CISL o UIL per il meccanismo clientelare delle assunzioni. E la presenza del sindacato si limitava in genere a pochi membri di commissione interna, per lo più vecchi e bravi compagni sopravvissuti alla repressione, ma con un atteggiamento paternalistico verso la base e soprattutto diffidenti verso le nuove leve operaie, di cui ricordano i passati comportamenti deferenti e dei quali li separano sempre origine regionale e formazione professionale. Questa rappresentanza era diventata incapace non solo di esprimere, ma anche di cogliere le nuove domande che nascevano sia dalle condizioni sociali e culturali dei giovani operai, sia dalle molte situazioni tecnologicamente differenziate prodotte dagli accelerati processi di riorganizzazione produttiva .

Inoltre, molti quadri sindacali erano ancora permeati dall’ideologia dei produttori, del lavoro inteso come fattore positivo da liberare dallo sfruttamento parassitario del capitalismo. In fondo non era cambiato molto rispetto all’ideologia produttivista che dominava il movimento socialista e sindacale italiano nei primi decenni del Novecento. Ancora il militante sindacale ideale doveva anche essere un buon operaio, un produttore interessato e impegnato nel suo lavoro, eticamente proteso al risparmio e a un modello di vita austero e sobrio. Pian piano, negli anni Sessanta:

si fa strada in ambienti sindacali e operai in genere, un diverso, opposto, atteggiamento. Si rifiutano i valori dell’etica del lavoro, della professionalità della produttività . […] rifiutando questi principi, permette di dare più coerenza e più assolutezza a pratiche quali gli aumenti eguali per tutti e l’opposizione a ogni forma di cottimo. Si trattava di un atteggiamento ideologiche che esprimeva bene la posizione dei nuovi lavoratori comuni, immigrati, privi di possibilità, e anche di interesse, ad acquisire quelle forme di professionalità ancora possibili, ma sempre più rare nell’industria .

I quadri sindacali sui quali si rovesciarono le lotte del secondo biennio rosso venivano da quella cultura e si erano formati in un clima, quello degli anni cinquanta, caratterizzato dalla sconfitta, dalla ritirata, dalla resistenza, e avevano, per forza di cose, dovuto costruire un’organizzazione sindacale centralizzata e rigidamente strutturata. Erano quindi psicologicamente incapaci di concepire la possibilità di passare da una guerra di posizione a una di movimento, abbandonando la vecchia struttura burocratica per stimolare il decentramento delle decisioni fino ai livelli più bassi, come accadrà, di lì a poco, col sindacato dei consigli. Ma costruire una nuova struttura sindacale in fabbrica non era facile. Innanzi tutto, bisognava confrontarsi con le nuove avanguardie cresciute spontaneamente nelle lotte, spesso “in aperto contrasto con i vecchi quadri, fedelissimi ma legati alla tradizionale immagine del sindacato”; poi, accogliere le nuove rivendicazioni significava privilegiare gli operai comuni rispetto agli specializzati: e anche questa non era una decisone facile, “voleva dire abbandonare il settore che fino ad allora aveva costituito il nerbo del sindacato a favore di un altro molto più numeroso, ma incerto per l’ancor recente passato di subordinazione e rifiuto della lotta” .
Che il problema fosse urgente e pressante era però chiaro ai sindacati, infatti, a dimostrazione del peso politico assunto dai giovani, che nei primi mesi del 1968 sia la FIOM che la FIM convocarono due conferenze nazionali dei giovani metallurgici dalle quali emerse la sottolineatura della “volontà dei giovani di non accettazione e di messa in discussione globale delle strutture sia aziendali che sociali, di rifiuto di considerare immodificabili gli attuali rapporti di forza, di dare una battaglia lunga e continua” .

Nel secondo biennio della rivolta
Il protagonismo dei giovani operai non era dovuto solo e principalmente ad un aumento “di peso numerico, ma di peso politico” . Fu questo strato della classe operaia, composto da operai comuni, in genere di origine contadina e meridionale, di relativa o recente immigrazione, prevalentemente giovani, che connotò quel ciclo di protesta caratterizzato da una scarsa disciplina sindacale, dall’insofferenza per il lavoro, per le regole del conflitto negoziale tra sindacato e padroni, per l’ostilità e la ribellione verso la gerarchia aziendale, per le forme di lotta nuove usate. Nelle lotte di quel biennio i giovani operai si scrollarono “di dosso il paternalismo dei vecchi” e introdussero un nuovo modo di vedere e di fare, “senza più dover passare attraverso le trafile dell’esperienza vuoi lavorativa vuoi sindacale” .
Similmente alle università, anche il luogo di lavoro venne trasformato in uno spazio pubblico liberato in parte dai tempi stretti del ritmo lavorativo, dove socializzare e fare amicizia. Quei giovani operai dequalificati e immigrati subirono il fascino e l’influenza di quanto stava facendo il movimento studentesco, il quale, ai loro occhi, si era conquistato un prestigio notevole in quanto: “i suoi attivisti erano abili organizzatori, sapevano parlare in pubblico e scrivere volantini” .
In quel ciclo di lotte operaie coesistevano dunque elementi di conflittualità generazionale -che si mescolavano con la questione dell’immigrazione meridionale nelle città industriali- e di classe fondati su una coscienza derivante dal rapporto con lavori, mansioni, ambienti lavorativi dequalificati e degradati dall’introduzione della catena di montaggio e della grande produzione in serie. Di qui una coscienza rivendicativa egualitaria (aumenti uguali per tutti, abolizione delle categorie), una richiesta di governo dal basso delle decisioni e delle scelte (l’assemblea di reparto, i delegati per gruppi omogenei o, più radicalmente ancora, il rifiuto della delega), un rifiuto del lavoro monotono, ripetitivo, privo di significato e di senso e, conseguentemente, una scarsissima identificazione con l’azienda, col processo produttivo in sé, con la tecnica e l’industria, quali elementi di progresso umano e civile, che era tipico invece dell’operaio di mestiere, qualificato, produttore, prevalentemente, più avanti degli altri con l’età, residente nella città dove lavorava da più generazioni, sindacalizzato e, magari, militante socialista o comunista che conservava ancora memoria ed esperienza della resistenza e della repressione subita nelle fabbriche nell’immediato secondo dopoguerra.
Essere giovani, vestire in un certo modo, ascoltare una certa musica, amare e valorizzare il tempo libero, le ferie, le vacanze, il divertimento –secondo il modello che la società dei consumi stava introducendo anche in Italia- sentirsi parte per questo di un universo più grande di quello rappresentato dal mando del lavoro e delle fabbrica, era un forte elemento di identificazione tra i giovani operai, capace di attenuare o superare le differenze regionali e dialettali, di provenienza familiare e di status.
Giovani erano gli occupanti delle università e delle scuole medie superiori, quelli che sfilavano per le strade delle città. Giovani erano gli studenti che facevano intervento e distribuivano i volantini davanti alle porte delle fabbriche. Giovani erano, prevalentemente, gli operai che si fermavano a discutere con gli studenti, che prendevano i loro volantini, che partecipavano ai vari comitati di base o alle assemblee autonome operai e studenti, che sfilavano nei cortei scontrandosi a volte con la polizia.
Giovani erano gli operai più disposti ad esporsi nella lotta in fabbrica, meno impauriti dalla repressione aziendale, meno intimoriti dal padrone: “oggi i giovani non hanno più paura della Fiat”; “i giovani - scriveva a caldo Aris Accornero in un articolo che riferiva delle lotte alla Fiat nel 1969- sono quelli che tirano […] erano i giovani che dominavano i cortei dopo aver dominato i picchetti” . Quando l’incontro operai e studenti partorì a Torino la manifestazione del 3 luglio del 1969, culminata negli scontri di Corso Traiano, un giornalista descrisse i partecipanti al corteo come “l’esercito degli irregolari delle lotte alla Fiat”, insieme ai giovani del movimento studentesco torinese c’erano operai, in buona parte ragazzi meridionali immigrati da poco a Torino, quelli che erano designati col soprannome di “napoli”, “bassitaglia”, “terroni”. E in pieno autunno caldo così erano descritti i nuovi protagonisti di quella lotta operaia:

Pugliesi, calabresi, irpini, lucani, non sono specializzati. Vengono dai paesi dell’abbandono, dai lager del sottoproletariato urbano; li hanno messi alle linee di montaggio dove sono avvenuti gli incidenti più gravi, gli episodi di violenza e di sabotaggio. Sono giovani approdati nelle plaghe del Nord, robusti, intatti, non possiedono qualifica, li hanno messi alle linee a montare per otto ore di fila i pezzi […] Sono crollati non solo per via dei ritmi insostenibili, delle multe, della disciplina da caserma, ma perché fuori dalla fabbrica si sono sentiti respinti da una città tetra che in cambio degli istituti associativi tradizionali (la piazza del paese, l’osteria) non gli offriva nulla se non le otto ore di lavoro e le otto ore di sonno nella branda .

Erano giovani ed erano meridionali quelli che andavano esplorando le città del Nord dove erano appena giunti col treno. La scoperta e la presa di possesso della città si mescolava al senso di solitudine e di angoscia determinato dall’impersonalità della vita tipica di una grande metropoli:

Tutta mia la città/ un deserto che conosco/ tutta mia la città/ questa notte un uomo piangerà. (Equipe 84, Tutta mia la città, di Mogol, Wood, 1969)

Molti di loro erano appena stati catapultati al Nord dall’ultima ondata migratoria interna. Avevano lasciato la luce e il sole del Meridione alle spalle e si erano trovati a vivere nel freddo, nella nebbia e nel colore grigio industriale delle città settentrionali. Il freddo che faceva in città era un tema ricorrente in alcune canzonette scritte e cantate nel 1969, in quel fatidico anno periodizzante, di ripresa decisa delle lotte operaie nei grossi centri industriali e cittadini. “Non senti il freddo che fa/ in questa città”, cantava Antoine in Ma cosa hai messo nel caffè, scritta da Bigazzi e Del Turco, al festival di Sanremo di quell’anno. E Nada di rincalzo:

D’inverno il sole stanco/ a letto presto se ne va/ non ce la fa più/ non ce la fa più./ La notte adesso scende/ con le sue mani fredde/ su di me/ ma che freddo fa/ ma che freddo fa. (Nada, Ma che freddo fa, di Migliacci, Mattone, 1969)

Un freddo che era dato dalla lontananza dal sole caldo del Sud, ma anche dalla mancanza di calore umano, una sofferenza in primo luogo data dalla separazione forzata con le donne, rimaste al Sud, una richiesta di bisogno d’amore, di rapporto fisico con una donna, di cui i meridionali si sentivano privati: “io son qui lontano dal sole […] lontano dal mio amore”, cantava Nicola Di Bari. E Soli si muore, urlava Patrick Samson, e pregare non era un’alternativa valida alla solitudine e alla mancanza di una donna:

E’ l’ultima notte/ che prego il signore/ fa freddo di notte/ soli si muore/ non ho l’amore

Un bisogno d’amore e di calore corporeo forte e giovane che “scoppia nel cuore” e rompeva ogni indugio di carattere morale, pronto ad infrangere il tabù della promessa di fedeltà fatta alla donna amata rimasta al Sud:

tu o un’altra è lo stesso/ aspettare non posso/ soli si muore/ senza un amore.
(Patrick Samson, Soli si muore, di James, Lucia, Mogol, Minellano, 1969)

Un bisogno d’amore che, data la solitudine sessuale in cui si trovava a volte il giovane meridionale appena immigrato in una città del settentrione, poteva risolversi nel rapporto con una prostituta :

sono solo nella strada o no, no/ qualcuno c’è./ Non dire una parola/ ti darò quello che vuoi/ tu non le somigli molto/ non sei come lei./ Però prendi la mia mano/ e cammina insieme a me. (Dik Dik, Senza luce, di Mogol, Battisti, Procol Harum, 1967)

Davanti alle fabbriche in lotta, nelle università occupate, la vita normale, fatta di lavoro e di studio, parve fermarsi, s’impose una pausa, si liberò per un attimo la vita dai doveri e dagli imperativi categorici, si scoprì che si aveva tempo da sciupare percorrendo la strada che portava ad appropriarsi della propria vita, quella fatta di relazioni, di amicizie, di riunioni e di impegni politici, di tempo libero dal lavoro, fregandosene, assieme al cantante Antoine, dell’etica del lavoro:

C’è a chi piace tanto lavorare/ ed è felice quando può faticare/ forse ha ragione/ ma a me sembra che poi / è più bello fare quello che vuoi
(Antoine, Mi piacerebbe, 1969)

C’era una consapevolezza, voluta, compiaciuta e gioiosa che consisteva nel godere del fatto che si stavano “sciupando” giorni ed energie che avrebbero dovute essere impiegate nello studio e nel lavoro, secondo il volere dei genitori, degli imprenditori:

so che sciuperò/ tutti i giorni miei/ lo dicevi già/ quando son partita/ lungo la mia vita. (Dalida, Mama, di Dossena, Bono, 1967)

L’unica cosa che ci rimane/ è questa nostra vita/ perciò compagni/ usiamola insieme prima che sia finita. (Lotta continua)

Non solo le lotte studentesche, ma anche quelle degli operai comportavano un momento di festa, di rottura delle regole sociali, gerarchiche e normative, una riappropriazione di identità collettiva, di tempo da perdere e da trascorrere assieme:

Il presente [fu] vissuto come tempo dell’azione, del piacere ricavato dalla percezione del carattere pubblico e insieme liberatorio della lotta […] esso [preparava] un futuro diverso. […] Futuro e presente si trovarono allineati nel tempo lungo la stessa traiettoria […] Se il futuro [era] ampio, il presente [era] cruciale, il passato [era] a sua volta un tempo reso vivo dagli attraversamenti che la memoria [compiva] sulla base della priorità del presente .

Quel movimento e quelle lotte misero in crisi i valori di efficienza, di pianificazione e di produttività che regolavano la società industriale e proposero nuovi modi di vivere e lavorare, scanditi da tempi e ritmi più rilassati, secondo la canzone di Enzo Del Re, Lavorare con lentezza, che ha dato il titolo al recente film del 2004 di Guido Chiesa, ambientato a Bologna nel 1977. Cantava Del Re: “lavorare con lentezza/ senza fare alcuno sforzo!/ Chi va veloce si fa male/ e finisce all’ospedale./ Pausa ritmo/ ritmo lento”.

Rock in Italia

Marilisa Merolla, Rock’n’roll italian way, Roma, Coniglio editore, 2011, pp. 168, euro24.00

L’autrice, docente di Storia contemporanea presso l’Università “Sapienza” di Roma, indaga, con la strumentazione tipica della storia sociale e culturale, i cambiamenti che si verificano nella società italiana nel decennio che va dal 1954 al 1964. Lo sguardo è puntato sulla società, sulla mentalità e suoi costumi, tutti elementi interessati da trasformazioni rilevanti che, se osservati dal punto di vista della storia politica o economica, sfuggono. Qui invece si tratteggia il percorso di una differenziazione generazionale, tra i giovani e gli adulti, che si misura soprattutto in atteggiamenti e comportamenti “impolitici”. D’altronde la “rivoluzione” del Rock and roll, impersonata nel mito giovanile di Elvis Presley, era stata una rivolta del corpo, prima ancora che della mente, alla consuetudine e al conformismo benpensante. Una ricerca generazionale di nuovi stili di vita, di un diverso atteggiamento verso il proprio corpo e verso gli altri: un nuovo “ritmo” di vita.
Da questi presupposti muove la ricerca, attenta a tratteggiare l’origine e lo sviluppo nel mondo del fenomeno musicale, per giungere poi al nostro paese. Così facendo supera quello che sovente è un limite di analoghe riflessioni: l’esterofilia. Atteggiamento che riduce o annulla del tutto la specificità italiana, considerata elemento secondario e di poco conto. Qui l’assioma è invertito. Il rock and roll è trattato come modello costituente dell’emergere di una nuova sensibilità giovanile che preoccupa il mondo degli adulti, indipendentemente dalle diverse culture politiche di appartenenza. L’invasione di quella cultura musicale americana allarma cattolici e comunisti e evidenzia, nelle loro prese di posizione, una sorta di panico morale.
I cattolici sono preoccupati perché quella cultura e qui comportamenti intaccano la solidità morale della vita sociale così come loro la intendono. I comunisti vedono in essa il germe di un’americanizzazione della società, un attacco, in piena guerra fredda, all’emergere di nuove coscienze giovanili antimperialiste e anticapitaliste. Comune alle due culture politiche è un atteggiamento che oscilla tra derisione e preoccupazione. Pochi sono i tentativi di comprendere e poi dare un senso alla trasformazione in atto. La stessa televisione, da poco operante nel paese, apre con difficoltà e timidezza all’evento nuovo. Tutto ciò non è sufficiente a bloccare l’andata dei giovani verso i bar, soprattutto quelli che hanno la “macchina dei dischi”, parola italiana che traduceva il termine juke box, le balere e i primi raduni musicali all’insegna del rock an roll dove appaiono sul palcoscenico i giovani interpreti del rock nostrano, come Celentano o Little Tony, per fare solo due nomi.
Non era stata questa la prima invasione cultural-musicale americana. Era già accaduto col jazz, ma questo genere musicale aveva sollevato l’interesse di una élite. Il rock invece è un fenomeno più di massa, trasversale alle classi sociali e alle differenze regionali, sottoposte queste ultime alla dura prova del rimescolamento della popolazione imposto dal boom economico e dalle ondate migratorie dalla campagna alla città e dal Sud al Nord. Si forma un nuovo mercato discografico, alimentato da una domanda giovanile che vuole ascoltare i suoi nuovi idoli, così diversi e lontani dalla tradizione melodica napoletana ancora imperante nella canzonetta leggera. D’altronde l’attacco a quella tradizione ad opera del rock and roll era partito proprio da Napoli nel 1954, con l’arrivo dei marinai americani di stanza nella base Nato di quella città installata nella baia di Bagnoli. Era l’inizio di un lungo discorso trasformativo. Non erano solo le ragazze, scrive l’autrice, a essere rovesciate dai propri partner sulle piste da ballo, era lo stesso sistema di valori dell’Italia del secondo dopoguerra che rischiava di essere ribaltato. Echi lontani di una richiesta di cambiamento che lavorarono a fondo e giunsero, attraverso tanti altri passaggi, al fatidico ’68 italiano, inteso come movimento antisistema di contestazione generazionale, capace di mettere in discussione l’apparato stesso dei partiti di integrazione di massa, quelli che avevano fondato, dopo la guerra, l’Italia repubblicana e democratica.

Diego Giachetti

le ragioni dei demoproletari

Le “ragioni” dei demoproletari

William Gambetta, Democrazia Proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Milano, Punto Rosso, 2010, pp. 287, euro15.00.

Nel 1988, l’allora giovane autore di questo libro entrava per la prima volta nella piccola sede di Democrazia Proletaria di Parma. Fra le tante intenzioni che lo portarono ad aprire quella porta, ce n’era una che iniziava a coltivare, la passione per la conoscenza storica, intesa in questo caso come comprensione delle origini e delle ragioni del “prodotto” politico che aveva incontrato. Un’esigenza quindi inizialmente soggettiva e personale, maturata in seguito con la competenza metodologica e storica, acquisita e affinata, che lo hanno condotto a scrivere questo libro. Nel 1988 la storia politica di DP era agli sgoccioli, si sarebbe conclusa infatti nel 1991 con lo scioglimento e la confluenza nella nascente Rifondazione comunista. La fine di una storia è spesso uno dei motivi che spingono lo storico a ricostruirla nei suoi passaggi principali collocandola ben dentro il contesto entro il quale crebbe, si sviluppò e operò. Ebbe così inizio il suo viaggio “a ritroso” che lo condusse, innanzi tutto, a ritrovare il giovane Gambetta, a osservarlo con simpatia e affetto ma anche col distacco, la lontananza e la separazione che il tempo e il senno del poi impietosamente infliggono. E’ la storia come autobiografia. E’ lo storico che si fa promotore della storia del suo tempo, uno degli esercizi più avvincenti, stimolati (ma anche più difficili) col quale cimentarsi. Un lavoro che non è la ricostruzione della propria memoria e neanche la pacata e distante esposizione di un tempo passato non vissuto e non partecipato di persona. Lo stimolo autobiografico è però utilizzato con discrezione, mediato dalla competenza storiografica acquisita. Inoltre, non essendo stato per ragioni anagrafiche, un testimone diretto di quell’esperienza, non ha corso il rischio di cadere nel “soggettivismo” autorappresentativo, tipico della memoria ancora viva di chi ha vissuto quella storia, con i suoi vantaggi, ma anche limiti. Non ha affatto ignorato questo “soggettivismo”, ha raccolto moltissime testimonianze di protagonisti che poi ha intrecciato alla documentazione “cartacea” prodotta al momento, ricollocandole così in quello che era lo spirito del tempo, senza il quale oggi, azioni, progetti, pensieri, analisi politiche, apparirebbero prive di senso.
Costante è infatti il richiamo al rigore metodologico e scientifico, ancor più necessario quando si tratta di storia contemporanea, perché bisogna dominare una documentazione straripante attraverso l’individuazione dei problemi e l’interpretazione concettualmente fondata, coniugandola con la sensibilità umana: «pietas e finesse, insomma, come armi nella lotta quotidiana dello studioso col documento e col tema», come amava dire lo storico Guido Quazza.
Un’opera di vigilanza rigorosa e meritoria che gli permette di sfuggire elegantemente al rischio del “presentismo”, quel modo di concepire il passato nella stretta camicia di un presente che, diventando una sorta di meccanismo “necessitante”, lo imprigiona e lo riduce limitandolo nelle sue potenzialità. Qui invece la vicenda demoproletaria è strappata a questo meccanismo sterile, non storia come necessità, ma storia come regno della libertà e delle possibilità. Questa solida acquisizione, implicita in tutto il testo, rende bene una doverosa critica a un senso comune storiografico-giornalistico e televisivo, imperante, ma che ha tradizioni antiche, quello di leggere la storia d’Italia come una serie di incidenti di percorso (le parentesi dello spirito): da fascismo, alla Resistenza, agli anni Settanta, all’attuale “berlusconismo”. Una serie di incidenti la cui origine appare storicamente incomprensibile, salvo richiamarsi a una sorta di impazzimento più o meno momentaneo da una presunta ragione storica, un disegno quasi divino che stenta a realizzarsi e devia continuamente dal percorso per l’imperfezione dell’umanità e, in questo caso, della società italiana. Nel caso specifico, con un processo del tutto opposto, la storia di DP, collocata nel contesto degli anni Settanta, è invece intesa come parte della storia d’Italia, considerata, secondo la bella definizione di Piero Gobetti, come autobiografia nazionale.
Nello specifico poi questa impostazione porta a mettere in discussione anche un altro assioma molto comune, soprattutto nel corso delle ricorrenze del ‘68 che si celebrano di decennio in decennio. Qui il ’68 (e il ’69) è un evento certo, ma dentro un processo, che ha un “prima, un “durante” e un “dopo”. Il ’68 non come evento piovuto dal cielo, accidente o parentesi, ma come fase che ha una periodizzazione lunga almeno un ventennio. Entro questo periodo sono raccolte e comprensibili storicamente le vicende che portarono alla costituzione, nel 1978, di Democrazia Proletaria, sigla con la quale si era presentata al pubblico nelle elezioni politiche del 1976, quando riunì in cartello di forze della nuova sinistra che andava da Lotta Continua, al Pdup-Manifesto, ad Avanguardia Operaia e altre formazioni minori. Ero lo sviluppo consapevole di culture politiche maturate già negli anni Sessanta attorno a piccoli gruppi di militanti e riviste, nonché di aree presenti in un partito che si chiamava Psiup, nello stesso Pci (si ricorda la corrente del Manifesto), nella componente sociale del cattolicesimo italiano. Culture politiche che furono travolte, sconvolte e ricomposte dalla sollevazione antagonista del biennio ’68-69, capaci dopo quell’evento di costituire quella che oggi comunemente viene chiamata la nuova sinistra degli anni Settanta. DP nasce nel generoso tentativo di trovare una sintesi tra varie esperienze di nuova sinistra. E’ un processo che riesce ma non del tutto. L’unione è infatti caratterizzata al suo inizio da una serie di divorzi e nuovi matrimoni, mentre un altro gruppo politico, Lotta Continua, si scioglie.
La vita del nuovo partito è subito perigliosa e difficile, sia per il contesto in cui si trova ad operare: movimento del ’77, recrudescenza del terrorismo, governi di solidarietà nazionale e sia per le difficoltà di strutturazione organizzativa che incontra. Le elezioni politiche anticipate del 1979 non sono un buon auspicio per la giovane formazione politica. Le perde, no ha eletti al parlamento italiano, solo Mario Capanno riesce a strappare un seggio al parlamento europeo. Ma è proprio in quella situazione che il piccolo partito scommette sulla sua ragione sociale e sulla sua sopravvivenza. Cosa che riesce e, si potrebbe dire violentando un po’ le “date storiche” formali, che DP, quale l’abbiamo conosciuta negli anni Ottanta, nasce nei fatti dopo il 1979 consolidandosi con le elezioni politiche del 1984, con i suoi 541 mila suffragi.
Questa succinta cronologia non inganni, il libro offre pagine e pagine di analisi sulla cultura politica che il gruppo seppe mettere in campo e in discussione, ne sottolinea tutti gli aspetti di novità, teorica, politica organizzativa. Un partito che, nell’età della sua esistenza, si schierò spesso dalla parte del torto due volte, non volendosi accomodare nelle poltrone riservate al potere e neanche in quelle occupate da un’opposizione troppo istituzionale e consociativa.

(Diego Giachetti)

Cinquant'anni senza Fred

Cinquant’anni senza Fred

di Diego Giachetti

Nel corso della sua carriera artistica Fred Buscaglione aveva creato un corto circuito fra la vita e i protagonisti delle sue canzoni. Il destino unì ancora di più e tragicamente questi due momenti. La morte lo colse infatti a 39 anni quando, a bordo della sua automobile nuova, fiammante, vistosa, una Thunderbild rosa confetto holliwoodiana, in un paese in cui circolavano moltissime lambrette e vespe, le topolino e le prime seicento, si schiantò alle 6.30 del mattino del 3 febbraio 1960 contro un camion carico di tufo in una strada del quartiere romano dei Parioli.
Ai funerali che si svolsero a Torino parteciparono migliaia di persone, più di diecimila scrissero i giornali, che lo attesero, per l’ultimo saluto, nel borgo Vanchiglia dove, coi primi proventi, aveva comprato un alloggio. Erano prevalentemente giovani, studenti con i libri sotto il braccio, operai che avevano chiesto qualche ora di permesso per poter assistere ai funerali, commesse e impiegate. Mentre il corteo funebre scivolava verso il cimitero generale, dalle porte spalancate dei bar i fans gettonavano Che bambola, Eri piccola ed altri successi del “grande Fred”.

Da Torino a Chicago e ritorno
Torino era la città in cui era nato nel 1920. Si era formato musicalmente presso il locale conservatorio affiancando agli studi severi, che non concluderà per ragioni economiche, un apprendistato come contrabbassista in orchestrine jazz nei locali notturni. Partecipò come soldato semplice alla seconda guerra mondiale, poi rientra a Torino e diventò un protagonista della scena musicale suonando in complessi che annoveravano alcuni tra i più importanti jazzisti dell'epoca. Durante un ingaggio a Lugano incontrò la donna della sua vita, Fatima Ben Embarek, una diciottenne marocchina che si cimentava in numeri di alta acrobazia e contorsionismo nel Trio Robin’s. Fu un amore burrascoso, alla Buscaglione, fuggirono assieme, ricercati dal padre di lei, convissero, diedero vita ad un sodalizio artistico e coniugale che li vedrà legati per parecchi anni. La sua carriera di cantante, assieme al gruppo degli Asternovas, ebbe inizio quando il suo amico Leo Chiosso, di professione avvocato, lo spinse ad interpretare il personaggio dei testi che lui scriveva.
Quei testi erano una parodia, svolta con ironia e intelligenza, dei luoghi comuni del “verace uomo americano” portato alla ribalta da attori come Clark Gable e Humphrey Bogart. Buscaglione interpretava la parte del duro, del “dritto” dal cuore tenerissimo, tremendamente sensibile al fascino delle bionde maggiorate, assai facile alle cotte che spesso lo rovinano: «sono un duro, ma facile alle cotte/ mi son preso un’imbarcata per la bionda platinè/ pensa un po’ che in un’annata mi ha ridotto sul pavè» (Che notte, Buscaglione-Chiosso, 1959). Nella Torino del dopoguerra appariva in tutta la sua diversità artistica e musicale, costruì un’immagine di sé legata al mito americano, di un uomo che vive alla giornata e non aspira a un lavoro sicuro e sempre uguale, che vive sul filo del rasoio, tra trasgressione e norma. Si vestiva all’americana, con camicia scura, alla maniera dei killer di Al Capone, cravatta bianca, baffetti alla Clark Gable, ciuffo sull’occhio, ghigno sarcastico, strafottente, da “bullo”, sigaretta tra le labbra, nuvole di fumo che lo circondavano, bicchiere di whisky sempre mezzo pieno in mano. Era un attore-cantante alla maniera dell’Humphrey Bogart di Casablanca del 1942, che impersonava la parte del bullo sovente perdente, che amava l’americanissimo whisky, il “facile”, come lo chiamava Fred: «Sono Fred dal whisky facile/ son criticabile, ma son fatto così» (Whisky facile, Buscaglione Chiosso, 1957).
Quando cantava Che bambola, il suo primo grande successo iniziava togliendosi la giacca e buttandola via, si allentava il nodo della cravatta, agganciava i pollici alle bretelle, posizionava la sigaretta in un angolo della bocca, dava il via ad una sceneggiata che esasperava mimandoli, i gesti e le smorfie tipiche dei protagonisti dei film polizieschi americani degli anni trenta. Su questi assiomi Buscaglione costruì il suo personaggio che giocava col linguaggio dei duri della Chicago degli anni trenta, un mondo che aveva sognato da piccolo, pieno di gangsters, poliziotti e intensa vita notturna, costellata da locali ambigui, frequentati da malavitosi e pupe bionde, dove si praticava il gioco d’azzardo, scoppiavano facilmente risse e volavano botte, sullo sfondo di una musica nuova, di sventagliate di mitra, colpi di pistola, ululati delle sirene delle macchine della polizia: «Sono il dritto di Chicago Sugar Bean/ arrivato fresco fresco da Sing Sing/ Io ho avuto da bambino Al Capone da padrino/ e mia madre mi allattava a whisky e gin» (Il dritto di Chicago, Buscaglione-Chiosso, 1959). «Che notte, che notte quella notte/ se ci penso mi sento le ossa rotte/ m’aspettava quella bionda/ che fa il pieno al Roxi bar/ l’amichetta tutta curva del capoccia Billy Car/ […] che botte, che botte quella notte» (Che notte, Buscaglione-Chiosso, 1959).
Nell’ambito musicale operò una rottura netta con la canzone melodica e sentimentale italiana, quella, per intenderci, che dominava a Sanremo e proponeva figure sdolcinate di amori delusi, mamme piangenti, vecchi scarponi, casette in Canadà, papaveri e papere, donne avvinte come l’edera ai loro uomini.

Il sogno americano in versione italiana
Mettendo a confronto quelle situazioni, quegli ambienti, quei personaggi interpretati da Fred, col mondo popolare e quotidiano della Torino di allora, piccola città, dove le serate si trascorrevano ancora al bar giocando a carte o a biliardo e parlando di donne e motori, egli smitizzava con ironia malinconica quel mondo americano leggendario, che compariva nel cinema, sui rotocalchi. Scherniva la Chicago degli anni trenta mescolandola con i quartieri popolari di Torino, dove i bulli la domenica non avevano neanche i soldi per andare allo stadio a vedere la partita. Difatti non era facile conciliare l’America con l’Italia, quel paese era fonte di simboli contrastanti e contraddittori, attraeva e respingeva allo stesso tempo. L’occupazione militare americana era appena finita, restava il chewing gum, la coca-cola, il whisky, i blue jeans, gli atteggiamenti da “bulli e pupe” e “l’American dream”, un sogno che prometteva la sua riproducibilità anche nel nostro paese, attraverso la creazione di un mercato di massa, premessa di un consumismo dilatato a tutti gli strati della popolazione e reso possibile dall’introduzione di nuove tecnologie produttive e dai metodi organizzativi del taylorismo e del fordismo. Ma questa dimensione consumistica e di nuova fruizione del tempo libero doveva ancora venire. Canzoni e personaggi interpretati da Fred lasciano intravedere la differenza che c’era tra la vita desiderata, sognata, e quella realmente vissuta. Una vita sognata, non ancora possibile, perché la prosperità che gli americani avevano lasciato intravedere non era ancora praticabile da noi, poiché il tenore di vita era povero, gli stipendi e i salari minimi, e tali restarono nel corso dell’accumulazione forzata degli anni cinquanta, durante i quali la produttività aumentò, ma non i redditi da lavoro.
Inoltre, il sogno americano, si scontrava con costumi, leggi, convenzioni, conservatrici, moraliste, bigotte. Le mode americane introdotte del cinema e dai rotocalchi erano guardate con diffidenza e combattute dalla cultura cattolica e comunista. In quegli anni il bersaglio dell’Associazione Cattolica e del PCI era il comportamento privato, la delimitazione dei confini tra ciò che era lecito fare e non fare nella dimensione “impolitica” dei rapporti tra i sessi. L’esaltazione dell’unità familiare, del matrimonio, della purezza, della verginità prematrimoniale, del ruolo subalterno e familiare della donna, la contrarietà al divorzio e all’aborto (per ragioni religiose nel caso dei cattolici, per ragioni di opportunità politica per i comunisti), appartenevano ad entrambe le culture politiche. Comune era la lotta contro la degenerazione dei costumi sessuali e relazionali tra gli individui che la modernità portava con sé, che nell’Italia di quegli anni si trasformava in una riserva, profonda e inappellabile, verso la cultura americana, accusata di lassismo, frivolezza, materialismo, edonismo.
Fred invece guardava da tutt’altra parte, aveva in testa la tipica diva americana del cinema, provocante, affascinante: «Bambola morbida, perfida e languida/ vivo per te, sono pazzo di te/ Sei bella, criminalmente bella/ sei mille volte femmina e tu lo sai» (Criminalmente bella, Buscaglione-Chiosso 1959). Un esempio era Rita Hayworth che con un misto di fragilità e di sex-appeal in Sangue e arena e soprattutto in Gilda proponeva un modello femminile radicalmente diverso sia dalle figure più tradizionali delle vergini o madri santificate dalla chiesa cattolica e adottate precedentemente dal fascismo, sia dal tipo di donna proposto dal cinema neorealista recitato da Anna Magnani. D’altronde, le nuove star che si affermarono in quegli anni, Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano, Lucia Bosè, Silvana Pampanini, e Sophia Loren, dovevano la loro popolarità anche ai loro attributi fisici, invariabilmente esibiti nei film con costumi dalle ampie scollature, golfini aderenti, vestiti corti o strappati.
Le maggiorate, le bambole coi capelli biondi, i “mammiferi modello 103” di Buscaglione e di un’Italia maschilista uscivano da sole e facevano tardi la sera, non indossavano i vestiti, li riempivano, così da dare l’idea, precisa e dettagliata, delle curve per le quali i play boy dei quartieri torinesi perdevano la testa: «Mi trovavo per la strada circa all’una e trentatré/ l’altra notte/ mentre uscivo dal mio solito caffè/ quando incrociò un bel mammifero modello 103!/ Che bambola!/ Riempiva un bel vestito/ di magnifico lamè/ era un cumulo di curve come al mondo non ce n’è/ che spettacolo le gambe, un portento credi a me!/ Che bambola!» (Che bambola, Buscaglione Chiosso, 1955).
Le donne italiane in realtà uscivano poco e soprattutto non da sole e di notte. Erano gli anni in cui si usciva la sera e si andava nella sala da ballo in tram, in bicicletta o a piedi. Il corteggiamento era un’impresa lunga, complicata e spesso infruttuosa, Nelle sale da ballo, facendosi coraggio, si chiedeva di ballare; se accettava si ballava per mezz’ora poi si tornava al tavolino e si scambiavano quattro chiacchiere. A questo punto, se tutto filava liscio, si tornava a ballare, preferibilmente un lento, nel corso del quale si poteva far scendere inavvertibilmente una mano sul fianco e avvicinare la guancia alla sua. Dopo si accompagnava la ragazza a casa e, se si era fatto colpo, le si strappava un appuntamento.
I play boy nostrani, pertanto, vivevano una vita difficile e si prestavano alla caricatura dissacrante. Così la figura di un noto latin lover, Porfirio Villarosa, venne adattata facendolo diventare “manovale alla Viscosa”, fabbrica di Venaria, alle porte della città, così che tanti piccoli Don Giovanni di periferia potessero riconoscersi: « Porfirio Villarosa/ che faceva il manoval a la Viscosa/ col suo sguardo conturbante/ egli ha l’oscar degli amanti/ quante donne ha conquistato/ non si sa»; si poteva sognare, assieme all’amore delle donne che cadevano ai propri piedi, anche la redenzione da una vita di lavoro, umile, noiosa; era il caso ancora di Porfirio Villarosa: «Ed un bel dì/ Porfirio Villarosa/ abbandona su due piedi la Viscosa/ bello, bello più di Valentino/ prediletto dal destino/ s’è piazzato/ ed ora la grana lui ce l’ha» (Fred Buscaglione, Porfirio Villarosa, Buscaglione, Chiosso, 1955)
Quasi sempre però i play boy locali con l’amore si mettevano in situazioni difficili. Per amore della loro piccola si rovinavano, erano costretti, per mantenerla, a fare “il grano” col gioco d’azzardo, non il poker però, ma il tresette: «T’ho viziata,/ coccolata,/ […] Tu,/ fumavi mille sigarette./ Io,/ facevo il grano col tresette». Erano trascinati in matrimoni indissolubili che terminavano a colpi di pistola e fucile a causa della gelosia: «M’hai stregato./ T’ho creduta./ L'hai voluto./ T’ho sposata./ […] Poi un giorno/ m’hai piantato/ per un tipo spappolato./ T’ho cercata,/ l'ho scovato,/ l'ho guardato, / s’è squagliato./ Quattro schiaffi t’ho servito,/ Tu mi hai detto:"Disgraziato!"./ La pistola m’hai puntato, eh,/ ed un colpo m’hai sparato» (Eri piccola, Chiosso, Buscaglione, 1958). Oppure: «Teresa,/ ti prego,/ non scherzare col fucile,/ […] E' stata una follia,/ l'ho incontrata per la via, disse "Vieni a casa mia"/ cosa mai potevo far?/ […] Teresa...(No!)/ Non mi sparar!» (Teresa, non sparare! Buscaglione, Chiosso, 1955)

Juke box e rock and roll
All’esplosione di popolarità di Fred Buscaglione contribuirono le macchine dei dischi, cioè i juke box, che erano 4.000 nel 1958, 17.000 nel 1962, 40.000 nel 1965. Nel 1959 recitò una parte importante nel film I ragazzi del juke box, che raccontava di giovani che si ribellavano contro i padri e l’anno precedente dedicò al juke box una canzone: «c’è la macchina dei dischi che va/ […] juke box è una magica invenzion/ juke box pochi soldi e una canzon/ juke box un gettone e la felicità» (Juke box, Malgoni, Beretta, 1958). Nell’immaginario di alcuni giovani torinesi le sue canzoni rappresentavano un mondo nel quale vivere era più facile che nella realtà del dopoguerra, dove si lavora molto, faticosamente, con poco guadagno e scarsissime opportunità di svago e divertimento. Erano i primi sintomi di una critica al lavoro di fabbrica, alla figura dell’operaio produttore e militante severo tutto d’un pezzo, come dimostrano testimonianze raccolte, nelle quali i protagonisti di quel periodo erano propensi a autorappresentarsi come giovani che amavano divertirsi, vivere di notte, giocare a carte, a biliardo, frequentare i caffè. Alcuni di essi, nati e vissuti nello stesso borgo di Buscaglione, amici sin da ragazzi, sembravano vivere su binari paralleli: di giorno operai in fabbrica, militanti politici e sindacali, e la sera e la notte frequentatori di locali, sale da ballo dove si esibiva il cantante torinese e insieme a lui tirar tardi fino alle prime ore del mattino. Buscaglione, le sue canzoni, il jazz, il mito americano, i juke box, i bar col flipper tracciavano la mappa di un ambiente sempre più urbano, entro il quale prendeva forma una primitiva, impulsiva identità generazionale giovanile, che comunicava un certo disagio sociale, una sorta di disadattamento, di mancata integrazione sociale, che si manifestava nella fatica a rispettare le regole, imposte loro dalle generazioni adulte, nella scuola e nel mondo del lavoro. Si trattava di comportamenti, ancora del tutto impolitici, che impensierivano la “gente per bene”. L’allarme dell’opinione pubblica perbenista aumentò ancora quando arrivò il rock and roll, subito accusato di scatenare perverse e primitive pulsioni sessuali, violenza, delinquenza, disinteresse per il lavoro e per la morale.
Buscaglione colse la novità del nuovo modo di vivere il tempo libero al ritmo del rock: «se vuoi venire con me/ domani al five o’ clock/ non prenderemo il the/ ma balleremo il rock […] rock, rock, rock/ bambina, rock» ( Five o’ clock rock, Buscaglione, Chiosso, 1957). La campagna contro quella musica e quello stile di vita raggiunse l’apice sul finire degli anni cinquanta, quando montò il fenomeno dei teddy boys e delle teddy girls, descritti come giovani associati in bande e accomunati dalla passione per il rock che giravano in lambretta, indossavano jeans, giubbotti di pelle e avevano una passione smodata per il flipper e il juke box. Erano tutti aspetti disordinati di una questione giovanile che si manifestava in quel decennio, in attesa del boom, degli anni Sessanta, della rivolta esistenziale e generazionale di quel decennio, musicalmente interpretata dal rock and roll e dal beat. Ma Fred oramai non c’era più. Ci manca da cinquant’anni, tanto!