Le “ragioni” dei demoproletari
William Gambetta, Democrazia Proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Milano, Punto Rosso, 2010, pp. 287, euro15.00.
Nel 1988, l’allora giovane autore di questo libro entrava per la prima volta nella piccola sede di Democrazia Proletaria di Parma. Fra le tante intenzioni che lo portarono ad aprire quella porta, ce n’era una che iniziava a coltivare, la passione per la conoscenza storica, intesa in questo caso come comprensione delle origini e delle ragioni del “prodotto” politico che aveva incontrato. Un’esigenza quindi inizialmente soggettiva e personale, maturata in seguito con la competenza metodologica e storica, acquisita e affinata, che lo hanno condotto a scrivere questo libro. Nel 1988 la storia politica di DP era agli sgoccioli, si sarebbe conclusa infatti nel 1991 con lo scioglimento e la confluenza nella nascente Rifondazione comunista. La fine di una storia è spesso uno dei motivi che spingono lo storico a ricostruirla nei suoi passaggi principali collocandola ben dentro il contesto entro il quale crebbe, si sviluppò e operò. Ebbe così inizio il suo viaggio “a ritroso” che lo condusse, innanzi tutto, a ritrovare il giovane Gambetta, a osservarlo con simpatia e affetto ma anche col distacco, la lontananza e la separazione che il tempo e il senno del poi impietosamente infliggono. E’ la storia come autobiografia. E’ lo storico che si fa promotore della storia del suo tempo, uno degli esercizi più avvincenti, stimolati (ma anche più difficili) col quale cimentarsi. Un lavoro che non è la ricostruzione della propria memoria e neanche la pacata e distante esposizione di un tempo passato non vissuto e non partecipato di persona. Lo stimolo autobiografico è però utilizzato con discrezione, mediato dalla competenza storiografica acquisita. Inoltre, non essendo stato per ragioni anagrafiche, un testimone diretto di quell’esperienza, non ha corso il rischio di cadere nel “soggettivismo” autorappresentativo, tipico della memoria ancora viva di chi ha vissuto quella storia, con i suoi vantaggi, ma anche limiti. Non ha affatto ignorato questo “soggettivismo”, ha raccolto moltissime testimonianze di protagonisti che poi ha intrecciato alla documentazione “cartacea” prodotta al momento, ricollocandole così in quello che era lo spirito del tempo, senza il quale oggi, azioni, progetti, pensieri, analisi politiche, apparirebbero prive di senso.
Costante è infatti il richiamo al rigore metodologico e scientifico, ancor più necessario quando si tratta di storia contemporanea, perché bisogna dominare una documentazione straripante attraverso l’individuazione dei problemi e l’interpretazione concettualmente fondata, coniugandola con la sensibilità umana: «pietas e finesse, insomma, come armi nella lotta quotidiana dello studioso col documento e col tema», come amava dire lo storico Guido Quazza.
Un’opera di vigilanza rigorosa e meritoria che gli permette di sfuggire elegantemente al rischio del “presentismo”, quel modo di concepire il passato nella stretta camicia di un presente che, diventando una sorta di meccanismo “necessitante”, lo imprigiona e lo riduce limitandolo nelle sue potenzialità. Qui invece la vicenda demoproletaria è strappata a questo meccanismo sterile, non storia come necessità, ma storia come regno della libertà e delle possibilità. Questa solida acquisizione, implicita in tutto il testo, rende bene una doverosa critica a un senso comune storiografico-giornalistico e televisivo, imperante, ma che ha tradizioni antiche, quello di leggere la storia d’Italia come una serie di incidenti di percorso (le parentesi dello spirito): da fascismo, alla Resistenza, agli anni Settanta, all’attuale “berlusconismo”. Una serie di incidenti la cui origine appare storicamente incomprensibile, salvo richiamarsi a una sorta di impazzimento più o meno momentaneo da una presunta ragione storica, un disegno quasi divino che stenta a realizzarsi e devia continuamente dal percorso per l’imperfezione dell’umanità e, in questo caso, della società italiana. Nel caso specifico, con un processo del tutto opposto, la storia di DP, collocata nel contesto degli anni Settanta, è invece intesa come parte della storia d’Italia, considerata, secondo la bella definizione di Piero Gobetti, come autobiografia nazionale.
Nello specifico poi questa impostazione porta a mettere in discussione anche un altro assioma molto comune, soprattutto nel corso delle ricorrenze del ‘68 che si celebrano di decennio in decennio. Qui il ’68 (e il ’69) è un evento certo, ma dentro un processo, che ha un “prima, un “durante” e un “dopo”. Il ’68 non come evento piovuto dal cielo, accidente o parentesi, ma come fase che ha una periodizzazione lunga almeno un ventennio. Entro questo periodo sono raccolte e comprensibili storicamente le vicende che portarono alla costituzione, nel 1978, di Democrazia Proletaria, sigla con la quale si era presentata al pubblico nelle elezioni politiche del 1976, quando riunì in cartello di forze della nuova sinistra che andava da Lotta Continua, al Pdup-Manifesto, ad Avanguardia Operaia e altre formazioni minori. Ero lo sviluppo consapevole di culture politiche maturate già negli anni Sessanta attorno a piccoli gruppi di militanti e riviste, nonché di aree presenti in un partito che si chiamava Psiup, nello stesso Pci (si ricorda la corrente del Manifesto), nella componente sociale del cattolicesimo italiano. Culture politiche che furono travolte, sconvolte e ricomposte dalla sollevazione antagonista del biennio ’68-69, capaci dopo quell’evento di costituire quella che oggi comunemente viene chiamata la nuova sinistra degli anni Settanta. DP nasce nel generoso tentativo di trovare una sintesi tra varie esperienze di nuova sinistra. E’ un processo che riesce ma non del tutto. L’unione è infatti caratterizzata al suo inizio da una serie di divorzi e nuovi matrimoni, mentre un altro gruppo politico, Lotta Continua, si scioglie.
La vita del nuovo partito è subito perigliosa e difficile, sia per il contesto in cui si trova ad operare: movimento del ’77, recrudescenza del terrorismo, governi di solidarietà nazionale e sia per le difficoltà di strutturazione organizzativa che incontra. Le elezioni politiche anticipate del 1979 non sono un buon auspicio per la giovane formazione politica. Le perde, no ha eletti al parlamento italiano, solo Mario Capanno riesce a strappare un seggio al parlamento europeo. Ma è proprio in quella situazione che il piccolo partito scommette sulla sua ragione sociale e sulla sua sopravvivenza. Cosa che riesce e, si potrebbe dire violentando un po’ le “date storiche” formali, che DP, quale l’abbiamo conosciuta negli anni Ottanta, nasce nei fatti dopo il 1979 consolidandosi con le elezioni politiche del 1984, con i suoi 541 mila suffragi.
Questa succinta cronologia non inganni, il libro offre pagine e pagine di analisi sulla cultura politica che il gruppo seppe mettere in campo e in discussione, ne sottolinea tutti gli aspetti di novità, teorica, politica organizzativa. Un partito che, nell’età della sua esistenza, si schierò spesso dalla parte del torto due volte, non volendosi accomodare nelle poltrone riservate al potere e neanche in quelle occupate da un’opposizione troppo istituzionale e consociativa.
(Diego Giachetti)
domenica 12 giugno 2011
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