domenica 12 giugno 2011

la forza rivoluzionaria dell'erotismo

La forza rivoluzionaria dell’erotismo
di Diego Giachetti

Gli anni del boom introdussero in Italia profondi cambiamenti strutturali sintetizzabili nel passaggio da una società ancora prevalentemente agricola ad una industriale. La struttura sociale e la società civile furono attraversate e ridefinite dalla migrazione interna, dall’inurbamento, dall’emergere di nuovi sistemi associativi e produttivi, dallo scadere dell’autorità parentale, dalla ristrutturazione della famiglia; tutti fattori che predisposero e favorirono mutamenti culturali, di valori e di costume a partire dalla nuova consuetudine alle vacanze, all’uso del tempo libero, al permissivismo che iniziò a diffondersi fagocitato da nuove forme di consumo.
Parallelamente cresceva una fiorente produzione di film, rotocalchi, fumetti, pubblicità di prodotti che usavano contenuti erotici per rendere appetibili e desiderabili le merci, mentre la moda femminile, dalla minigonna in poi, scopriva ampie porzioni di nudo. Il nudo femminile era il tratto distintivo di riviste erotiche, scandalistiche e di cronaca culturale che conquistavano lettori in quegli anni. «Men», uscito in edicola nel 1967, non era certo il capostipite, l’editoria già produceva simili prodotti, vendendoli però discretamente, sottobanco. «Men» era diverso, non voleva la discrezione, uscì annunciato da un battage pubblicitario e il primo numero fu sequestrato, il secondo pure, così il terzo e il quarto. Su quindici numeri finora pubblicati, disse il direttore Marcello Mancini «ce ne hanno sequestrati tredici», e proseguì: «noi stiamo conducendo una battaglia contro la censura e la morale bacchettona, basandoci sulla evoluzione della morale che in Italia si sta registrando».
Sei mesi dopo «Men» nasceva «Playmen», un mensile con foto a colori di Angelo Frantoni e Roberto Rocchi, le illustrazioni di Guido Crepax e Dino Buzzati, rubriche a cura di Gian Carlo Fusco, Renzo Arbore e Luciano Bianciardi, lunghe interviste a personaggi famosi (Borges, Ionesco, Bergman, Liv Ulman, Mario Vergasllosa, Ginsberg, Fred Zinneman), articoli complessi, saggi su Camus, Pavese, Ezra Pound, racconti di scrittori stranieri e italiani tra i quali Sciascia e Moravia. Fu l’inizio, ricorda un redattore, di una battaglia culturale e civile, contro la pena di morte, per il divorzio, ed erotica; qui si vinsero «due guerre fondamentali. Prima la guerra del capezzolo (un seno nudo era accettato purché non si vedesse il capezzolo). La stessa cosa con il pelo pubico: il ventre femminile doveva essere assolutamente glabro» (Franco Valobra «Tuttolibri», 18 ottobre 2003). In quegli anni, ricordava la fondatrice della rivista «Playmen, Adelina Tattilo, noi avviammo un discorso culturale sull’eros; era il momento in cui cominciavano a cadere alcune fondamentali convenzioni, come quella sulla verginità, il delitto d’onore, l’indissolubilità del matrimonio, il piacere sessuale: insomma gli anni sessanta stavano facendo piazza pulita di tante perniciose stupidaggini sulla sessualità.
L’industria cinematografica sfornava per la stagione 1969-70 ben 74 titoli di film erotici contro i 59 della stagione precedente. I titoli di questi film erano indicativi di una spregiudicatezza nuova nell’affrontare certi temi, fino a pochi anni prima, decisamente proibiti: Orgasmo, Confessioni intime di tre giovani spose, Inghilterra nuda, La scuola delle vergini, La casa degli amori particolari, Scusi, lei conosce il sesso?, Scusi, facciamo l’amore?, Dove vai tutta nuda?, Povera vacca. Nell’estate del 1967 alla mostra cinematografica di Venezia fu assegnato il massimo premio al regista Bunuel per il suo Bella di giorno, pochi mesi dopo Salvatore Samperi con Grazie zia, un film sugli scabrosi rapporti fra un’avvenente zia e il nipote, otteneva un certo successo. Rotti gli argini, la fiumana cinematografica invase le sale. Fra le tante pellicole merita essere ricordata Helga che inaugurò la serie di film d’educazione sessual-ginecologica. Il film svolgeva una funzione pedagogica sul sesso e la riproduzione, rivelando per la prima volta a tutto schermo l’affascinante momento della nascita della vita umana, fino allora circondato da ipocriti veli di mistero.
Si trattava di una serie di film che puntavano sul nudo e sul sesso, glutei, cosce, seni, una sorta di analisi anatomica del corpo femminile, un «trionfo della carne», scrisse la giornalista Giuliana Dal Pozzo sulla rivista «Noi Donne» dell’ottobre 1968, precisando però che la donna protagonista di questi film non era più la figura riconducibile all’oggetto del piacere maschile. Infatti, proseguiva, ottenuta una maggior libertà di parola, riusciva, anche attraverso il linguaggio sessuale, a raccontare se stessa e i suoi problemi. In quei film l’uomo era il grande assente. Il marito di Helga viveva una vita che agli spettatori non era dato conoscere. Gli uomini, spesso, non avevano né spina dorsale né sesso. Il marito di Povera vacca era un rapinatore da due soldi. L’amante era un ladruncolo. Il bel giovane fatuo di Scusi facciamo all’amore, era un giocattolo in mano a signore danarose e influenti della Milano industriale.
Non solo stava cambiando la percezione del comune senso del pudore, era l’idea stessa di pudore che appariva sempre più “anormale”, di un altro tempo e epoca, non più consona a rappresentare la rivoluzione sessuale in atto che integrava sempre più il sesso e la sessualità nella vita quotidiana.

Ninfette e yé-yé
Dietro queste manifestazioni della cinematografia e della pubblicistica si andava formando un soggetto sociale rappresentato dalla nuova generazione femminile alla ricerca di una propria identità. Il soggetto si costruiva sull’inquietudine che serpeggiava tra le giovanissime ragazze italiane, inserendosi in quella protesta generazionale che muoveva i primi confusi passi dentro le fabbriche, le scuole, negli oratori, nei bar e nel chiuso delle famiglie. Inizialmente furono etichettate col termine “ninfette”, per indicare le ragazzine più disinibite e spregiudicate nel modo di vestire, di atteggiarsi e di comportarsi. Il loro atteggiamento urtava con una pratica di vita, una consuetudine morale e di costumanza regolata ancora dai tabù morali e dalle norme che avevano governato la vita delle loro madri, delle loro nonne e della famiglia tradizionale. Furono una delle prime acerbe manifestazioni dei sintomi di un cambiamento che maturava nel mondo delle giovani donne, che si ribellavano alle oppressioni che subivano in famiglia. Le ragazze erano sempre meno disposte ad accettare che i genitori impedissero loro di avere una vita privata, propria, autonoma e libera. Essere libere e indipendenti diventava un obiettivo da raggiungere al più presto. Tale desiderio non era ancora correlato alla richiesta di un cambiamento profondo della società, per ora i processi di presa di coscienza, le richieste di maggior indipendenza dai genitori, erano contestazioni che si spegnevano in brontolii e sofferenze tra i labirinti delle case, una sofferenza e un’angoscia personali alle quali neanche le giovani protagoniste sapevano dare una spiegazione razionale.
Si trattava di giovani donne alle prese col lento ma progressivo aumento della scolarizzazione, con l’affermazione di una primordiale autonomia che si manifestava in atti quali prendere la patente, guidare l’auto o la vespa, fumare, lavorare fuori della famiglia, e con una accentuata ambiguità “maliziosa” (da “ninfette”) verso la morale sessuale. Stavano modificando i propri comportamenti su un piano strettamente individuale, procedendo a tentoni, a livello individuale, non ancora informate che il loro malessere era eguale a quello di tante altre coetanee.
Dopo le “ninfette” vennero “le ragazze yè-yè”. Il termine aveva un’origine frivola e canzonettistica. Molte canzoni del momento inserirono infatti il ritornello sillabico che faceva “yé-yé”. Il termine fu genericamente usato per indicare i comportamenti giovanili stravaganti, i loro balli moderni, il twist, lo shake, il surf, i loro strani gusti e il loro idioma. Finirono con l’essere considerati yé-yé tutti quei giovani e quelle giovani che adottavano comportamenti anticonformistici nel vestire, nel parlare, nell’ascoltare musica, nel ballare.
Le giovani teenager apparivano antropologicamente più mature fisicamente e psichicamente rispetto alla generazione precedente. Erano «fisicamente più avanti rispetto alla loro età», i loro occhi erano «inquieti e vigilanti», le gambe «lunghe», alla verginità sembravano dare «minore importanza di una volta e le occasioni di perderla sono molte e variate», si poteva leggere in un articolo del «L’Espresso» del marzo 1964. Dietro queste inquietudini e spregiudicatezze che si affacciavano tra le giovani, esistevano ancora schiere di donne, appartenenti soprattutto alle generazioni precedenti, ligie alla vecchia morale. Il 70%, ad esempio, riteneva ancora importante la verginità prematrimoniale, il 71% riteneva l’infedeltà femminile più grave che quella maschile. Le casalinghe, al 70%, indicavano nella fedeltà la dote più importante della moglie ideale. E, ancora, secondo un’inchiesta svolta dalla Doxa nel 1962 solo il 17% delle donne si era dichiarata a favore del divorzio.
Tra i giovani erano le canzonette dell’appena nato e vituperato rock italiano a diffondere in migliaia di dischi nuovi messaggi, che contribuivano a demistificare il ruolo del sesso e del rapporto sessuale riducendolo a bene piacevole, da praticare e consumare senza sensi di colpa.
Questa dimensione amorosa della giovinezza era rivendicata da loro e volevano fosse considerata importante, quanto gli studi, il lavoro, la famiglia; la ricerca e il bisogno di un partner erano invocati, pretesi, parte della condizione giovanile, come cantava con voce esile ma convinta Francoise Hardy: «Tous le garcons el les filles/ […] hanno sempre qualcuno d’amare/ e la mano nella mano/ se ne vanno piano piano/ se ne vanno per le strade/ a parlare dell’amore» (Quelli della mia età, di Hardy, Pallavicini, 1963). Il ballo del mattone, uno dei successi della giovane cantante Rita Pavone di quegli anni, era esemplificativo di un nuovo modo di intendere il rapporto col proprio partner, invitato perentoriamente a non essere geloso e furioso se capitava di ballare con altri il twist o il rock. Non era proprio il caso di fare «le scenate» o di provocare «la lite» per così poco, tanto, recuperava la protagonista della canzone, «con te/ che sei la mia passione/ io ballo/ il ballo del mattone» (Verde, Canfora, 1963).
Passione e mattone non erano due parole scelte solo per la facile rima. Ballare sul mattone significava letteralmente, come dice la canzone stessa, stringersi forte, languidamente, e muoversi appena, così poco che bastava lo spazio di un mattone per ballare. Non a caso Rita Pavone cantando diceva di provare per il suo ragazzo passione, non amore. La parola trasmetteva bene l’idea di un’emozione forte, di un’attrazione fisica, carnale, un po’ differente dall’amore convenzionale, ammantato di bacini, bacetti e sospiri nell'attesa del sospirato matrimonio. Le canzoni di Rita Pavone piacevano soprattutto ai giovani perché portavano alla ribalta gusti e mentalità di quella generazione riguardo al modo di concepire e trattare le questioni sentimentali. Esse inneggiavano ad una specie di “cameratismo sessuale” che sdrammatizzava l’alone retorico che circondava la parola amore, cuore, sentimento: esaltavano il flirt, l’esperienza, indipendentemente dall’impegno d’amore eterno.
Immediata fu la risposta canora del mondo della conservazione e della tradizione, affidata a una giovanissima debuttante al Festival di Sanremo del 1964. Gigliola Cinquetti, che quel Festival vinse, si presentò con una dichiarazione forte d’intenti: Non ho l’età (per amarti). Con essa si ribadiva l’opportunità e la necessità per le giovani donne, di non amare prima del matrimonio, vivendo così lo stereotipo popolare dell’amore romantico, spirituale, rimandando al momento del matrimonio l’amore terrestre e profano. Cantava infatti: «Lascia che io viva un amore romantico/ nell’attesa che/ che venga quel giorno./ Ma ora no, non ho l’età».

L’ora delle “piperine”
L’idea che i comportamenti giovanili stessero degradando verso un amoralismo diffuso era ben radicata negli adulti e trovava conferma in un’inchiesta pubblicata sulla rivista «Big» nel settembre 1966. Il 78% degli adulti intervistati definiva i giovani amorali e si riconosceva in risposte del tipo: «non c’è più pudore», «stanno trasformando la strada in una gigantesca alcova», «troppa promiscuità: non c’è più confine tra i sessi». Il 79% dei giovani invece auspicava tra i due sessi rapporti camerateschi e desessualizzati, e il 77% riteneva l’amore una cosa importante, da collocarsi subito dopo la libertà nella scala dei valori. Un’ altra inchiesta pubblicata nel 1966 (L’iniziazione, Rizzoli) sul comportamento sessuale delle adolescenti di Lieta Harrison, che aveva preso in esame 1047 ragazze dai tredici ai diciannove anni, aveva suscitato scalpore. Si scopriva che tutte avevano avuto almeno un flirt, il 15% aveva limitato il rapporto a contatti superficiali, il 22%, invece, aveva avuto esperienze complete.
Il fenomeno emergeva in superficie anche dalla lettere dei lettori che varie riviste pubblicavano. Giovani coppie, moltissime delle quali non sposate, scrivevano alle redazioni per comunicare che avevano rapporti completi, senza pensare al matrimonio, altre invece precisavano di limitarsi «ai giochi d’amore», senza andare oltre, anche per timore di gravidanze indesiderate. Tra quelle in procinto di sposarsi, diverse annunciavano di aver rinunciato volontariamente e coscientemente alla verginità prematrimoniale. Ma il tema della verginità tormentava e assillava ancora una parte consistente delle giovani ragazze, soprattutto quelle che avevano programmato quale tappa fondamentale il matrimonio. Statisticamente, la verginità era un cruccio ed un valore soprattutto per le donne più mature, per le madri più che per le figlie.
Le esigenze giovanili si scontravano con una morale tradizionale, con adulti conservatori e perbenisti che mal tolleravano discorsi relativi al sesso, alla verginità, ai rapporti prematrimoniali, al divorzio, all’uso della pillola anticoncezionale. La società, l’impianto legislativo, morale, e educativo non erano pronti ad affrontare tali problemi. Relativamente al sesso, a come “nascono i bambini”, ai metodi anticoncezionali la disinformazione tra i giovani regnava sovrana. Era un argomento tabù che difficilmente si affrontava in famiglia, meno ancora a scuola e le informazioni erano lasciate al sentito dire, al chiacchiericcio giovanile dei gruppi amicali. Il rischio di gravidanze non desiderate era notevole, le informazioni circa i modi di evitarle scarse, l’aborto, naturalmente, era condannato. Nell'attesa che fosse approvata la legge sul divorzio, cosa che accadrà nel 1970, e che nel 1971 la Corte Costituzionale dichiarasse illegittimi gli articoli del codice penale che vietavano la propaganda e l’uso degli anticoncezionali, il mondo della canzonetta leggera e giovanile conduceva la sua battaglia.
Il cantante “leggero” Antoine, sulle pagine de «L’Espresso» del 15 maggio 1966, dichiarava: «mettete in vendita la pillola ai magazzini generali» e su quelle del settimanale «Vie Nuove» del 9 giugno 1966, sosteneva: «sono contrario decisamente al matrimonio, una formalità inutile», facendo da battistrada all’intervista a Patty Pravo, pubblicata sul già citato settimanale il 30 marzo 1967 e così riportata: «Crede nell’amore? Sì. Nel matrimonio? No. E’ per il divorzio? Finché esisterà il matrimonio bisognerà che ci sia anche il divorzio».
Patty Pravo e prima ancora Caterina Caselli divennero le capostipiti, nell’immaginario giovanile, di una nuova figura di donna: le “piperine” dal nome del locale, Il Piper, che aprì le sue porte ai giovani a Roma nel 1965 e nel quale esse, e tanti altri giovani cantanti e gruppi beat, iniziarono la loro carriera. In Nessuno mi può giudicare (Pace, Panzeri, Beretta, Del Prete, 1966) l’interprete Caterina Caselli raccontava non solo di aver già un fidanzato, ma di averlo tradito. Ciò fatto lo confessava al partner, perché non era un’ipocrita come gli adulti che predicavano bene e razzolavano male. Anticipando i tempi sosteneva che in una coppia moderna e matura non c’erano segreti. Perentoria partiva affermando che nessuno la poteva giudicare, «nemmeno tu». Un buon incipit, forte e deciso, pronunciato un attimo prima che arrivasse il femminismo nuovo ad illuminare il percorso femminile. Era stata con un altro, ma ritornava da lui perché «ho visto la differenza/ fra lui e te/ ed ho scelto te […]/ in confronto all’altro se meglio tu». Prometteva che non lo avrebbe fatto mai più, ma ci ricascava facilmente e alcuni mesi dopo incideva Perdono (di Soffici, Mogol). Aveva nuovamente tradito e nuovamente chiedeva perdono. Era stato facile confondersi, smarrirsi cantava: «diceva le cose che dici tu/ aveva gli stessi occhi che hai tu», «da come ha sorriso sembravi tu» e poi «di notte è molto strano/ il fuoco di un cerino/ ti sembra il sole che non hai».
Certo non lo diceva esplicitamente, ma il senso della rivendicazione del diritto ai rapporti affettivi e sessuali prematrimoniali, un vero e proprio tabù all’epoca, era esplicito. Le donne da lei interpretate rivendicavano la libertà di poter scegliere l’«uomo d’oro», tutto per loro. Ma per trovarlo bisognava cercarlo in una pluralità di esperienze: «quell’uomo d’oro forse sei tu», gli diceva ma, non ancora del tutto sicura, proseguiva affermando: «non so, mi guardo un poco in giro e poi ti dirò» (L’uomo d’oro, di Pace, Panzeri, Guatelli, 1966). Per intanto, una cosa era certa, le donne non volevano più accettare il ruolo subalterno, essere di qualcuno, volevano essere libere e indipendenti nella scelta. Né erano più disposte a lasciarsi trattare come bambole da usare e poi buttare via dagli uomini: «No, ragazzo, no/ tu non mi metterai/ fra le dieci bambole/ che non ti piacciono più» (Patty Pravo, La bambola, 1968). Ciò premesso il testo conteneva altre due dichiarazioni interessanti e inquietanti. L’interprete affermava che da quel momento non avrebbe più legato la sua vita e il suo destino a un uomo, di cui non si fidava più: «da stasera la mia vita nelle meni di un ragazzo no!/ non la metterò più!». Poi lasciva intendere che una delle questioni dirimenti nel rapporto col partner era la mancanza di soddisfazione. Gli uomini, nei rapporti sessuali, erano accusati di essere egoisti e frettolosi, pensavano solo al proprio piacere e non a quello della partner: «Tu! Pensi solo per te!».
Argomento quest’ultimo condiviso da moltissime altre donne, almeno a giudicare dal numero delle lettere che giungevano alle redazioni dei rotocalchi. Dal pianeta femminile salivano grida di dolore di donne e mogli insoddisfatte, scriveva Marialivia Serini su «L’Espresso» del giugno 1969. Quelle lettere, quegli sfoghi, quel raccontare fatti intimi, denotavano una spregiudicatezza nuova che scopriva un mondo d’insoddisfatte, di mal appagate, mal possedute, d’incomprese che gridavano, similmente alla canzone dei Rolling Stones del 1965, il diritto alla Satisfaction, alla soddisfazione, all’orgasmo. Le lettere raccontava l’insoddisfazione nuova che serpeggiava tra le donne: «in sette anni di matrimonio non ho mai provato nulla, acqua fresca», «i rapporti col mio fidanzato non sono completi e io non ne sono soddisfatta», «sposata da un anno non trovo piacere nell’amplesso», «ho quarant’anni, matrimonio sbagliato, non ho mai avuto una vita sessuale», «da alcuni mesi conosco uno tanto caro che durante l’incontro amoroso si preoccupa anche di me al punto che -fatto storico e memorabile- due o tre volte sono arrivata a provare ciò che per me era solo una favola». Si trattava di un lamento uguale e comune, indipendentemente dall’ideologia politica, e dal giornale che pubblicava le lettere. L’invocato orgasmo, spesso sentito nominare per esperienza indiretta, non era facile da raggiungere, nonostante l’impegno: «nell’amplesso sono molto aggressiva ma non raggiungo l’orgasmo», lamentava Lori, su «Noi Donne» del 2 agosto 1969.
Primi sintomi di crisi della mascolinità
Nel 1969, l’anno delle lotte operaie, dell’autunno caldo, della nascita di alcuni gruppi dell’estrema sinistra (Lotta Continua, Potere Operaio), una ditta produttrice d’oggettistica erotica proclamava il “pornoanno”. «Il 69 è l’unico pornoanno del nostro secolo», si poteva leggere nella presentazione pubblicitaria. «In quest’anno tutto ci deve essere concesso: con le nostre amanti, con le nostre mogli, con i nostri mariti». D’altronde era l’anno in cui furoreggiava tra i giovani una canzone scandalosa e invisa agli adulti perbenisti, Je t’aime: moi non plus, di Birkin, Gainsburg, nella quale tra sospiri e affanni la coppia simulava prima i preliminari e poi un rapporto sessuale, ad un certo punto si cantava: «Je vais, je vais et je viens/ Entre tes reins/ Je vais et je viens/ Entre tes reins/ et je me retiens». Così diceva il partner maschile mente faceva l’amore, precisando che si tratteneva dal raggiungere l’orgasmo, perché aspettava e rispettava i tempi della sua partner.
La canzone era stata composta nel 1967 da Serge Gainsbourg per essere cantata in compagnia di Brigitte Bardot. Infatti la incisero assieme, ma all'ultimo momento BB si oppose alla sua pubblicazione (solo nel 1981 l’attrice acconsentirà). Così la canzone fu incisa nuovamente nel 1969 con Jane Birkin, attrice francese che era diventata famosa per la partecipazione al film Blow up di Michelangelo Antonioni. Diffusa il 29 maggio del 1969, fu subito scandalo e successo e un fiorire di versioni non originali in Italia, la prima delle quali ad opera di Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer. L’«0sservatore romano» pubblicò la traduzione integrale a dimostrazione della sua scabrosità, subito la RAI censurò dalle sue trasmissioni il brano. Dall’Italia la canzone dall’Italia la si poteva ascoltare su radio Montecarlo, assieme ad altre censurate dalla RAI come Carlo Martello, Bocca di Rosa, Il gorilla, di Fabrizio De Andrè. Il 15 ottobre 1969 la Procura della repubblica di Milano mise sotto sequestro il disco su tutto il territorio nazionale.
La canzone iniziava con un innocuo duetto romantico ma subito si spogliava di ogni sentimentalismo sdolcinato per entrare nel pieno di un dialogo tra due persone che facevano l’amore, prendevano quindi il sopravvento gemiti, sospiri, ritmati trasalimenti fino all’orgasmo finale, con lei che intimava a lui, che da buon maschio moderno si tratteneva in attesa dell’orgasmo della sua compagna («Je me retiens»), di non trattenersi più: «maintenant/ viens». Si trattava di una esemplificazione canora dell’orgasmo plurimo e simultaneo, dell’uomo e della donna assieme, che riecheggiava lo slogan tra il goliardico e il rivoluzionario del ’68: «Amore, amore, veniamo assieme con la rivoluzione».
La rivolta giovanile e studentesca sessantottina mescolò politica, sesso e musica, come era già accaduto nei campus americani in rivolta. Qui musica, uso di sostanze stupefacenti, contestazione al sistema e sesso si intrecciarono tra loro. I concerti rock, al pari delle manifestazioni politiche, preludevano spesso a incontri erotici. Jim Morrison si definiva «un politico erotico» e Janis Joplin dichiarò: «la mia musica non è fatta per farvi ribellare, è fatta per scopare». Ed Sanders definì la metà degli anni sessanta «l’epoca d’oro della scopata».
Sull’onda di questa rivoluzione emersero, qua e là, i primi sintomi della crisi della mascolinità. L’uomo si sorprese intimorito dalla figura femminile, dalle sue richieste, esigenze, dal suo voler affermare un’indipendenza affettiva. Che qualcosa, rispetto al tradizionale rapporto uomo donna, stesse cambiando se ne accorgeva anche il “macho” Rocky Roberts, che con tutte le ragazze, fino a quel momento era sempre stato «tremendo», le lasciava quando voleva e poi le riprendeva, ma ora era costretto ad arrendersi e nel corteggiare la nuova partner stava perdendo la «reputazione di tremendo» (Sono tremendo, Ciotti, Capunao, 1968). Più di un dubbio e un senso di smarrimento e di crisi, nascosto, rimosso, negato, iniziò a serpeggiare tra i giovani uomini nei confronti di quelle che credevano essere le loro donne: «Ti stai sbagliano chi hai visto non è,/ non è Francesca./ Lei è sempre a casa che aspetta me/ […] Se c’era un uomo poi,/ no, non può essere lei./ […] Francesca non ha mai chiesto di più/ perché/ lei vive per me» (Lucio Battisti, Non è Francesca, Mogol, Battisti, 1969).
Simbolicamente Francesca era, probabilmente, la donna giovane che cominciava ad indossare la minigonna, un vestito che in Italia si caricava di un significato che andava oltre l’esibizione delle gambe, voleva segnalare l’anticonformismo, la disobbedienza. Una disobbedienza scandalosa che faceva sensazione se la indossava qualche attrice famosa e scandalo se lo facevano le ragazzine. La minigonna rappresentava lo spirito nuovo di una generazione femminile, più allegra, sorridente, felice, per la quale la guerra e il secondo dopoguerra, con le sue tragedie e fatiche, erano veramente finiti. Di fronte a tanta e spavalda disinvoltura c’era già chi, tra gli uomini, invertendo i canoni si augurava che i flirt, diventassero grandi amori, come quelli di una volta, non semplici avventure: «Non sarà un’avventura/ non può essere soltanto una primavera/ questo amore non è una stella/ che al mattino se ne va» (Lucio Battisti, Un’avventura, Mogol, Battisti, 1969).

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