Marilisa Merolla, Rock’n’roll italian way, Roma, Coniglio editore, 2011, pp. 168, euro24.00
L’autrice, docente di Storia contemporanea presso l’Università “Sapienza” di Roma, indaga, con la strumentazione tipica della storia sociale e culturale, i cambiamenti che si verificano nella società italiana nel decennio che va dal 1954 al 1964. Lo sguardo è puntato sulla società, sulla mentalità e suoi costumi, tutti elementi interessati da trasformazioni rilevanti che, se osservati dal punto di vista della storia politica o economica, sfuggono. Qui invece si tratteggia il percorso di una differenziazione generazionale, tra i giovani e gli adulti, che si misura soprattutto in atteggiamenti e comportamenti “impolitici”. D’altronde la “rivoluzione” del Rock and roll, impersonata nel mito giovanile di Elvis Presley, era stata una rivolta del corpo, prima ancora che della mente, alla consuetudine e al conformismo benpensante. Una ricerca generazionale di nuovi stili di vita, di un diverso atteggiamento verso il proprio corpo e verso gli altri: un nuovo “ritmo” di vita.
Da questi presupposti muove la ricerca, attenta a tratteggiare l’origine e lo sviluppo nel mondo del fenomeno musicale, per giungere poi al nostro paese. Così facendo supera quello che sovente è un limite di analoghe riflessioni: l’esterofilia. Atteggiamento che riduce o annulla del tutto la specificità italiana, considerata elemento secondario e di poco conto. Qui l’assioma è invertito. Il rock and roll è trattato come modello costituente dell’emergere di una nuova sensibilità giovanile che preoccupa il mondo degli adulti, indipendentemente dalle diverse culture politiche di appartenenza. L’invasione di quella cultura musicale americana allarma cattolici e comunisti e evidenzia, nelle loro prese di posizione, una sorta di panico morale.
I cattolici sono preoccupati perché quella cultura e qui comportamenti intaccano la solidità morale della vita sociale così come loro la intendono. I comunisti vedono in essa il germe di un’americanizzazione della società, un attacco, in piena guerra fredda, all’emergere di nuove coscienze giovanili antimperialiste e anticapitaliste. Comune alle due culture politiche è un atteggiamento che oscilla tra derisione e preoccupazione. Pochi sono i tentativi di comprendere e poi dare un senso alla trasformazione in atto. La stessa televisione, da poco operante nel paese, apre con difficoltà e timidezza all’evento nuovo. Tutto ciò non è sufficiente a bloccare l’andata dei giovani verso i bar, soprattutto quelli che hanno la “macchina dei dischi”, parola italiana che traduceva il termine juke box, le balere e i primi raduni musicali all’insegna del rock an roll dove appaiono sul palcoscenico i giovani interpreti del rock nostrano, come Celentano o Little Tony, per fare solo due nomi.
Non era stata questa la prima invasione cultural-musicale americana. Era già accaduto col jazz, ma questo genere musicale aveva sollevato l’interesse di una élite. Il rock invece è un fenomeno più di massa, trasversale alle classi sociali e alle differenze regionali, sottoposte queste ultime alla dura prova del rimescolamento della popolazione imposto dal boom economico e dalle ondate migratorie dalla campagna alla città e dal Sud al Nord. Si forma un nuovo mercato discografico, alimentato da una domanda giovanile che vuole ascoltare i suoi nuovi idoli, così diversi e lontani dalla tradizione melodica napoletana ancora imperante nella canzonetta leggera. D’altronde l’attacco a quella tradizione ad opera del rock and roll era partito proprio da Napoli nel 1954, con l’arrivo dei marinai americani di stanza nella base Nato di quella città installata nella baia di Bagnoli. Era l’inizio di un lungo discorso trasformativo. Non erano solo le ragazze, scrive l’autrice, a essere rovesciate dai propri partner sulle piste da ballo, era lo stesso sistema di valori dell’Italia del secondo dopoguerra che rischiava di essere ribaltato. Echi lontani di una richiesta di cambiamento che lavorarono a fondo e giunsero, attraverso tanti altri passaggi, al fatidico ’68 italiano, inteso come movimento antisistema di contestazione generazionale, capace di mettere in discussione l’apparato stesso dei partiti di integrazione di massa, quelli che avevano fondato, dopo la guerra, l’Italia repubblicana e democratica.
Diego Giachetti
domenica 12 giugno 2011
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