“Di nuovo a Reggio Emilia/di nuovo là in Sicilia”. Luglio 1960 l’antifascismo in blue jeans e magliette a strisce
di Diego Giachetti
Cinquant’anni or sono la rivolta del luglio 1960 contro il governo e i fascisti del Movimento Sociale Italiano segnava un passaggio importante tra vecchio e nuovo antifascismo, tra la generazione che aveva fatto la Resistenza e aveva subito la delusione profonda per come era stata ricostruita l’Italia post-fascista e quella cresciuta nell’immediato dopoguerra. Protagonisti di quelle giornate furono, accanto ai “vecchi” partigiani, i giovani che scesero in piazza con una determinazione che stupì in quanto allora si pensava e si scriveva che i “nuovi” giovani fossero tutti integrati nel sistema, frivoli e senza grandi ideali.
Antifascismo in piazza
La partecipazione attiva dei giovani alle manifestazioni indette dai sindacati e dai partiti di sinistra per contrastare la svolta verso destra impressa con la costituzione del governo Tambroni, nella primavera del 1960, lasciò stupiti giornalisti e osservatori interessati. Il governo si reggeva grazie al contributo dei voti del Movimento Sociale Italiano (MSI) e dei monarchici. In questo clima, preoccupante per le forze di sinistra, il MSI annunciò che avrebbe tenuto a Genova il suo Congresso Nazionale. Si trattava di una scelta provocatoria, Genova era, infatti, una città che aveva ricevuto la medaglia d’oro per la partecipazione alla Resistenza. L’annuncio che al congresso missino avrebbe partecipato anche l’ex prefetto di Genova, Carlo Emanuele Basile, in carica durante la Repubblica di Salò, e responsabile della deportazione di parecchi operai e antifascisti, fece aumentare la tensione inducendo la popolazione genovese a partecipare in massa alla manifestazione del 30 giugno indetta dai partiti di sinistra e dai sindacati. In Piazza De Ferrari i manifestanti si scontrarono con le forze dell’ordine.
Protagonisti della manifestazione e dei successivi scontri con la celere furono i giovani, chiamati allora, dai giornalisti, i “ragazzi dalle magliette a strisce”, perché in quei mesi dilagava la moda delle magliette di cotone bianche rigate orizzontalmente con colori vivaci. “Sciamo di giovani sono scesi in piazza a Genova”, scriveva «L’Espresso» del 10 luglio 1960, sotto un titolo già di per sé eloquente: “Perché così giovani”. Comparvero nelle prime file del corteo, protessero, tenendosi per mano, ai lati la lenta sfilata dei manifestanti verso Piazza De Ferrari, sostennero lo slancio anche violento della manifestazione.
Fu una sorpresa per tutti, compresa la sinistra che aveva più di un motivo per lamentarsi della scarsa coscienza politica giovanile. Soprattutto si colse l’estrema disponibilità allo scontro con le forze dell’ordine: “Vidi un ragazzo brandire una sedia di acciaio di un bar e lanciarsi contro il parabrezza di una macchina. Un altro giovane, quasi un adolescente, con quella sua maglietta di cotone a righe vivaci e i blue jeans stretti sulle anche sottili, si avventò, mulinando un asse, contro due agenti e li costrinse a ripararsi contro il muro. Un altro giovane magro, gli occhi infuriati dietro le lenti da studente, si buttò addosso a un questurino e gli strappò il manganello. Poi, mentre gli agenti indietreggiavano, cominciò nella nebbia azzurrina lasciata dai gas lacrimogeni la lotta a distanza con i sassi […] Da mani giovani, per lo più, partivano quei sassi” («Vie Nuove», 9 luglio 1960)
Anche per un’analoga manifestazione che si svolse in quei giorni a Palermo, i giornali non poterono fare a meno di sottolineare come i giovani fossero stati tra i più vivaci e combattivi protagonisti dello sciopero, citando a dimostrazione di quanto affermato che, su 14 denunciati, 10 erano giovani di età compresa tra i 17 e i 25 anni. Una manifestazione, quella di Palermo, che ebbe avuto caratteristiche singolari e imprevedibili con protagonisti nuovi che affiancarono gli operai organizzati nei sindacati e nei partiti di sinistra. E anche lì, come a Genova, quando la polizia caricò, furono i giovani a reagire, subito e con decisione, così gli scontri dilagarono, i giovani eressero barricate per proteggersi dall’assalto delle jeeps; nemmeno l’opera di convincimento di dirigenti sindacali e partitici, perché abbandonassero la piazza, ebbe successo: molti fra gli operai seguirono l’invito. Ma non fu facile trattenere quelli con le magliette a strisce.
Il Prefetto di Genova e il governo decisero di rinviare il congresso del MSI, contemporaneamente, però, Tambroni diede alla polizia il permesso di sparare in situazioni di emergenza contro i dimostranti antifascisti e antigovernativi. Così il 5 luglio la polizia sparò a Licata in Sicilia uccidendo un manifestante e ferendone cinque. La sera del 6 luglio 1960 la polizia a cavallo e la celere con le jeep caricarono brutalmente i partecipanti ad una manifestazione antifascista, regolarmente autorizzata, che si teneva a Roma a Porta San Paolo. Anche i in questo caso i giovani furono i protagonisti degli scontri. Il 7 luglio nuovi spari sui dimostranti a Reggio Emilia che provocavano 5 morti e 19 feriti. La CGIL proclamò uno sciopero generale di protesta mentre la polizia continuava a sparare sui manifestanti; l’8 luglio ci furono due morti a Palermo e uno a Catania. Di quei morti colpiva la giovane età. Dei cinque caduti a Reggio Emilia due avevano rispettivamente 19 e 21 anni, a Licata, stando alle cronache dei giornali, il dimostrante morto era un giovane, quello catanese pure e dei due morti di Palermo uno aveva vent’anni: “vittime della violenza di Stato sono i ragazzi con le magliette a strisce”, scriveva Andrea Barbato su «L’Espresso» del 17 luglio 1960. Non era quindi un caso che anche in una strofa della nota canzone di Fausto Amodei, Per i morti di Reggio Emilia - scritta per ricordare quelle giornate - si sottolineasse: “son morti sui vent’anni”.
E anche i feriti di Reggio Emilia, come notava Maria Antonietta Maciocchi, recatasi in visita all’ospedale, erano in prevalenza “quasi tutti ragazzi, poco più o poco meno che ventenni. Così giovani”. Proseguiva poi descrivendo la folta partecipazione giovanile ai funerali dei cinque dimostranti uccisi: “in migliaia hanno occupato Reggio. Sembrava che quei morti appartenessero soprattutto a loro; avevano gremito tutte le piazze discutendo e avevano vicino le lambrette con appiccicate sopra la pin up in costume di pelle di leopardo. Erano in blue jeans, con le magliette a righe e i capelli a zazzera sul collo. Esattamente quelli che i sondaggi Doxa e magari gli stessi padri definiscono “totalmente indifferenti” alla politica e impegnati solo in una problematicità tutta a fior di pelle, affidata solo al juke box, al cinema d’evasione, ai fumetti”( «Vie Nuove», 16 luglio 1960).
Antifascismo in blue jeans
La cultura e la mentalità di questi giovani erano sovente in rotta di collisione con quella delle generazioni adulte. La loro era una problematicità che si nutriva, grazie al diffondersi della televisione, del cinema e della radio, di nuovi modelli culturali e comportamentali; difatti, nel primo quinquennio del decennio Sessanta si diffondevano i ritmi del rock, del twist, unitamente ai blue jeans. Erano i sintomi di un cambiamento antropologico, non ancora politico, che assegnava alla musica e al “vestire” il compito di marcare una separazione generazionale dagli adulti e una denuncia della loro incomprensione: “Blue jeans/ blue jeans e rock and roll/ c’è tanta gioventù/ con i blue jeans/ che balla il rock and roll/ […] ci volete punire/ perché portiamo i jeans/ senza mai considerare/ questa nostra età” (Adriano Celentano, Blue jeans rock, 1960). Non a caso un allora giovane e attento osservatore, Augusto Illuminati, la definì “la rivolta dei blue jeans” sulle pagine del periodico dei giovani comunisti Nuova Generazione del 30 luglio 1960.
Non solo i giovani andavano ridefinendo e riprendendo per loro uso personale la categoria di antifascismo, ma nei loro comportamenti, nei loro costumi, nella loro cultura in senso antropologico, era possibile rilevare il delinearsi di una spaccatura che attraversava orizzontalmente le classi sociali e i blocchi ideologici e politici di appartenenza. I giovani, accanto all’identificazione col proprio ambito familiare, sociale, scolastico, partitico, sindacale, lavorativo erano sempre più indotti ad un sentire comune che li accomunava in quanto tali. E le canzonette, assieme ai vecchi canti partigiani, furono le protagoniste della manifestazione di piazza del 7 luglio 1960 a Reggio Emilia, prima della sua tragica conclusione. Ricorda infatti il fratello di Ovidio Franchi, il fresatore diciannovenne ucciso dalla polizia, “si cantava canzoni della Resistenza, qualche altra canzone non politica o comunque di attualità in quel periodo, che era di moda, visto anche la nostra giovane età” (Pollicino Gnus, luglio-agosto 2000).
In quei giorni del luglio 1960 riscoprirono l’entusiasmo per l’azione diretta, vista come alternativa ad una lotta politica tutta burocratica e amministrativa, capace solo di produrre mediazione nelle debite sedi istituzionali. Un intelligente osservatore di quegli eventi, Danilo Montaldi, aveva segnalato a caldo due aspetti importanti di quella scesa in piazza dei giovani. Si trattava della “prima manifestazione di classe della nuova generazione cresciuta nel clima del dopoguerra”, ed era una manifestazione prodotta da giovani i quali, “dopo quindici anni di esperienza politica “democratica”, si ponevano, nella maggior parte, “fuori dai partiti” . Questo rapporto non certo celebrativo e nostalgico con la Resistenza era stato colto da Carlo Levi, il quale, raccontando degli scontri di porta San Paolo del luglio 1960 a Roma, aveva scritto che i giovani dimostranti si salutavano gridando: “viva la Resistenza!”, ma subito dopo si domandava: “Quale Resistenza?”, per rispondersi: “non la vecchia Resistenza, ma la nuova, la loro Resistenza, di cui facevano la prima prova” (ABC, n. 5, 10 luglio 1960).
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