domenica 12 giugno 2011

Cinquant'anni senza Fred

Cinquant’anni senza Fred

di Diego Giachetti

Nel corso della sua carriera artistica Fred Buscaglione aveva creato un corto circuito fra la vita e i protagonisti delle sue canzoni. Il destino unì ancora di più e tragicamente questi due momenti. La morte lo colse infatti a 39 anni quando, a bordo della sua automobile nuova, fiammante, vistosa, una Thunderbild rosa confetto holliwoodiana, in un paese in cui circolavano moltissime lambrette e vespe, le topolino e le prime seicento, si schiantò alle 6.30 del mattino del 3 febbraio 1960 contro un camion carico di tufo in una strada del quartiere romano dei Parioli.
Ai funerali che si svolsero a Torino parteciparono migliaia di persone, più di diecimila scrissero i giornali, che lo attesero, per l’ultimo saluto, nel borgo Vanchiglia dove, coi primi proventi, aveva comprato un alloggio. Erano prevalentemente giovani, studenti con i libri sotto il braccio, operai che avevano chiesto qualche ora di permesso per poter assistere ai funerali, commesse e impiegate. Mentre il corteo funebre scivolava verso il cimitero generale, dalle porte spalancate dei bar i fans gettonavano Che bambola, Eri piccola ed altri successi del “grande Fred”.

Da Torino a Chicago e ritorno
Torino era la città in cui era nato nel 1920. Si era formato musicalmente presso il locale conservatorio affiancando agli studi severi, che non concluderà per ragioni economiche, un apprendistato come contrabbassista in orchestrine jazz nei locali notturni. Partecipò come soldato semplice alla seconda guerra mondiale, poi rientra a Torino e diventò un protagonista della scena musicale suonando in complessi che annoveravano alcuni tra i più importanti jazzisti dell'epoca. Durante un ingaggio a Lugano incontrò la donna della sua vita, Fatima Ben Embarek, una diciottenne marocchina che si cimentava in numeri di alta acrobazia e contorsionismo nel Trio Robin’s. Fu un amore burrascoso, alla Buscaglione, fuggirono assieme, ricercati dal padre di lei, convissero, diedero vita ad un sodalizio artistico e coniugale che li vedrà legati per parecchi anni. La sua carriera di cantante, assieme al gruppo degli Asternovas, ebbe inizio quando il suo amico Leo Chiosso, di professione avvocato, lo spinse ad interpretare il personaggio dei testi che lui scriveva.
Quei testi erano una parodia, svolta con ironia e intelligenza, dei luoghi comuni del “verace uomo americano” portato alla ribalta da attori come Clark Gable e Humphrey Bogart. Buscaglione interpretava la parte del duro, del “dritto” dal cuore tenerissimo, tremendamente sensibile al fascino delle bionde maggiorate, assai facile alle cotte che spesso lo rovinano: «sono un duro, ma facile alle cotte/ mi son preso un’imbarcata per la bionda platinè/ pensa un po’ che in un’annata mi ha ridotto sul pavè» (Che notte, Buscaglione-Chiosso, 1959). Nella Torino del dopoguerra appariva in tutta la sua diversità artistica e musicale, costruì un’immagine di sé legata al mito americano, di un uomo che vive alla giornata e non aspira a un lavoro sicuro e sempre uguale, che vive sul filo del rasoio, tra trasgressione e norma. Si vestiva all’americana, con camicia scura, alla maniera dei killer di Al Capone, cravatta bianca, baffetti alla Clark Gable, ciuffo sull’occhio, ghigno sarcastico, strafottente, da “bullo”, sigaretta tra le labbra, nuvole di fumo che lo circondavano, bicchiere di whisky sempre mezzo pieno in mano. Era un attore-cantante alla maniera dell’Humphrey Bogart di Casablanca del 1942, che impersonava la parte del bullo sovente perdente, che amava l’americanissimo whisky, il “facile”, come lo chiamava Fred: «Sono Fred dal whisky facile/ son criticabile, ma son fatto così» (Whisky facile, Buscaglione Chiosso, 1957).
Quando cantava Che bambola, il suo primo grande successo iniziava togliendosi la giacca e buttandola via, si allentava il nodo della cravatta, agganciava i pollici alle bretelle, posizionava la sigaretta in un angolo della bocca, dava il via ad una sceneggiata che esasperava mimandoli, i gesti e le smorfie tipiche dei protagonisti dei film polizieschi americani degli anni trenta. Su questi assiomi Buscaglione costruì il suo personaggio che giocava col linguaggio dei duri della Chicago degli anni trenta, un mondo che aveva sognato da piccolo, pieno di gangsters, poliziotti e intensa vita notturna, costellata da locali ambigui, frequentati da malavitosi e pupe bionde, dove si praticava il gioco d’azzardo, scoppiavano facilmente risse e volavano botte, sullo sfondo di una musica nuova, di sventagliate di mitra, colpi di pistola, ululati delle sirene delle macchine della polizia: «Sono il dritto di Chicago Sugar Bean/ arrivato fresco fresco da Sing Sing/ Io ho avuto da bambino Al Capone da padrino/ e mia madre mi allattava a whisky e gin» (Il dritto di Chicago, Buscaglione-Chiosso, 1959). «Che notte, che notte quella notte/ se ci penso mi sento le ossa rotte/ m’aspettava quella bionda/ che fa il pieno al Roxi bar/ l’amichetta tutta curva del capoccia Billy Car/ […] che botte, che botte quella notte» (Che notte, Buscaglione-Chiosso, 1959).
Nell’ambito musicale operò una rottura netta con la canzone melodica e sentimentale italiana, quella, per intenderci, che dominava a Sanremo e proponeva figure sdolcinate di amori delusi, mamme piangenti, vecchi scarponi, casette in Canadà, papaveri e papere, donne avvinte come l’edera ai loro uomini.

Il sogno americano in versione italiana
Mettendo a confronto quelle situazioni, quegli ambienti, quei personaggi interpretati da Fred, col mondo popolare e quotidiano della Torino di allora, piccola città, dove le serate si trascorrevano ancora al bar giocando a carte o a biliardo e parlando di donne e motori, egli smitizzava con ironia malinconica quel mondo americano leggendario, che compariva nel cinema, sui rotocalchi. Scherniva la Chicago degli anni trenta mescolandola con i quartieri popolari di Torino, dove i bulli la domenica non avevano neanche i soldi per andare allo stadio a vedere la partita. Difatti non era facile conciliare l’America con l’Italia, quel paese era fonte di simboli contrastanti e contraddittori, attraeva e respingeva allo stesso tempo. L’occupazione militare americana era appena finita, restava il chewing gum, la coca-cola, il whisky, i blue jeans, gli atteggiamenti da “bulli e pupe” e “l’American dream”, un sogno che prometteva la sua riproducibilità anche nel nostro paese, attraverso la creazione di un mercato di massa, premessa di un consumismo dilatato a tutti gli strati della popolazione e reso possibile dall’introduzione di nuove tecnologie produttive e dai metodi organizzativi del taylorismo e del fordismo. Ma questa dimensione consumistica e di nuova fruizione del tempo libero doveva ancora venire. Canzoni e personaggi interpretati da Fred lasciano intravedere la differenza che c’era tra la vita desiderata, sognata, e quella realmente vissuta. Una vita sognata, non ancora possibile, perché la prosperità che gli americani avevano lasciato intravedere non era ancora praticabile da noi, poiché il tenore di vita era povero, gli stipendi e i salari minimi, e tali restarono nel corso dell’accumulazione forzata degli anni cinquanta, durante i quali la produttività aumentò, ma non i redditi da lavoro.
Inoltre, il sogno americano, si scontrava con costumi, leggi, convenzioni, conservatrici, moraliste, bigotte. Le mode americane introdotte del cinema e dai rotocalchi erano guardate con diffidenza e combattute dalla cultura cattolica e comunista. In quegli anni il bersaglio dell’Associazione Cattolica e del PCI era il comportamento privato, la delimitazione dei confini tra ciò che era lecito fare e non fare nella dimensione “impolitica” dei rapporti tra i sessi. L’esaltazione dell’unità familiare, del matrimonio, della purezza, della verginità prematrimoniale, del ruolo subalterno e familiare della donna, la contrarietà al divorzio e all’aborto (per ragioni religiose nel caso dei cattolici, per ragioni di opportunità politica per i comunisti), appartenevano ad entrambe le culture politiche. Comune era la lotta contro la degenerazione dei costumi sessuali e relazionali tra gli individui che la modernità portava con sé, che nell’Italia di quegli anni si trasformava in una riserva, profonda e inappellabile, verso la cultura americana, accusata di lassismo, frivolezza, materialismo, edonismo.
Fred invece guardava da tutt’altra parte, aveva in testa la tipica diva americana del cinema, provocante, affascinante: «Bambola morbida, perfida e languida/ vivo per te, sono pazzo di te/ Sei bella, criminalmente bella/ sei mille volte femmina e tu lo sai» (Criminalmente bella, Buscaglione-Chiosso 1959). Un esempio era Rita Hayworth che con un misto di fragilità e di sex-appeal in Sangue e arena e soprattutto in Gilda proponeva un modello femminile radicalmente diverso sia dalle figure più tradizionali delle vergini o madri santificate dalla chiesa cattolica e adottate precedentemente dal fascismo, sia dal tipo di donna proposto dal cinema neorealista recitato da Anna Magnani. D’altronde, le nuove star che si affermarono in quegli anni, Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano, Lucia Bosè, Silvana Pampanini, e Sophia Loren, dovevano la loro popolarità anche ai loro attributi fisici, invariabilmente esibiti nei film con costumi dalle ampie scollature, golfini aderenti, vestiti corti o strappati.
Le maggiorate, le bambole coi capelli biondi, i “mammiferi modello 103” di Buscaglione e di un’Italia maschilista uscivano da sole e facevano tardi la sera, non indossavano i vestiti, li riempivano, così da dare l’idea, precisa e dettagliata, delle curve per le quali i play boy dei quartieri torinesi perdevano la testa: «Mi trovavo per la strada circa all’una e trentatré/ l’altra notte/ mentre uscivo dal mio solito caffè/ quando incrociò un bel mammifero modello 103!/ Che bambola!/ Riempiva un bel vestito/ di magnifico lamè/ era un cumulo di curve come al mondo non ce n’è/ che spettacolo le gambe, un portento credi a me!/ Che bambola!» (Che bambola, Buscaglione Chiosso, 1955).
Le donne italiane in realtà uscivano poco e soprattutto non da sole e di notte. Erano gli anni in cui si usciva la sera e si andava nella sala da ballo in tram, in bicicletta o a piedi. Il corteggiamento era un’impresa lunga, complicata e spesso infruttuosa, Nelle sale da ballo, facendosi coraggio, si chiedeva di ballare; se accettava si ballava per mezz’ora poi si tornava al tavolino e si scambiavano quattro chiacchiere. A questo punto, se tutto filava liscio, si tornava a ballare, preferibilmente un lento, nel corso del quale si poteva far scendere inavvertibilmente una mano sul fianco e avvicinare la guancia alla sua. Dopo si accompagnava la ragazza a casa e, se si era fatto colpo, le si strappava un appuntamento.
I play boy nostrani, pertanto, vivevano una vita difficile e si prestavano alla caricatura dissacrante. Così la figura di un noto latin lover, Porfirio Villarosa, venne adattata facendolo diventare “manovale alla Viscosa”, fabbrica di Venaria, alle porte della città, così che tanti piccoli Don Giovanni di periferia potessero riconoscersi: « Porfirio Villarosa/ che faceva il manoval a la Viscosa/ col suo sguardo conturbante/ egli ha l’oscar degli amanti/ quante donne ha conquistato/ non si sa»; si poteva sognare, assieme all’amore delle donne che cadevano ai propri piedi, anche la redenzione da una vita di lavoro, umile, noiosa; era il caso ancora di Porfirio Villarosa: «Ed un bel dì/ Porfirio Villarosa/ abbandona su due piedi la Viscosa/ bello, bello più di Valentino/ prediletto dal destino/ s’è piazzato/ ed ora la grana lui ce l’ha» (Fred Buscaglione, Porfirio Villarosa, Buscaglione, Chiosso, 1955)
Quasi sempre però i play boy locali con l’amore si mettevano in situazioni difficili. Per amore della loro piccola si rovinavano, erano costretti, per mantenerla, a fare “il grano” col gioco d’azzardo, non il poker però, ma il tresette: «T’ho viziata,/ coccolata,/ […] Tu,/ fumavi mille sigarette./ Io,/ facevo il grano col tresette». Erano trascinati in matrimoni indissolubili che terminavano a colpi di pistola e fucile a causa della gelosia: «M’hai stregato./ T’ho creduta./ L'hai voluto./ T’ho sposata./ […] Poi un giorno/ m’hai piantato/ per un tipo spappolato./ T’ho cercata,/ l'ho scovato,/ l'ho guardato, / s’è squagliato./ Quattro schiaffi t’ho servito,/ Tu mi hai detto:"Disgraziato!"./ La pistola m’hai puntato, eh,/ ed un colpo m’hai sparato» (Eri piccola, Chiosso, Buscaglione, 1958). Oppure: «Teresa,/ ti prego,/ non scherzare col fucile,/ […] E' stata una follia,/ l'ho incontrata per la via, disse "Vieni a casa mia"/ cosa mai potevo far?/ […] Teresa...(No!)/ Non mi sparar!» (Teresa, non sparare! Buscaglione, Chiosso, 1955)

Juke box e rock and roll
All’esplosione di popolarità di Fred Buscaglione contribuirono le macchine dei dischi, cioè i juke box, che erano 4.000 nel 1958, 17.000 nel 1962, 40.000 nel 1965. Nel 1959 recitò una parte importante nel film I ragazzi del juke box, che raccontava di giovani che si ribellavano contro i padri e l’anno precedente dedicò al juke box una canzone: «c’è la macchina dei dischi che va/ […] juke box è una magica invenzion/ juke box pochi soldi e una canzon/ juke box un gettone e la felicità» (Juke box, Malgoni, Beretta, 1958). Nell’immaginario di alcuni giovani torinesi le sue canzoni rappresentavano un mondo nel quale vivere era più facile che nella realtà del dopoguerra, dove si lavora molto, faticosamente, con poco guadagno e scarsissime opportunità di svago e divertimento. Erano i primi sintomi di una critica al lavoro di fabbrica, alla figura dell’operaio produttore e militante severo tutto d’un pezzo, come dimostrano testimonianze raccolte, nelle quali i protagonisti di quel periodo erano propensi a autorappresentarsi come giovani che amavano divertirsi, vivere di notte, giocare a carte, a biliardo, frequentare i caffè. Alcuni di essi, nati e vissuti nello stesso borgo di Buscaglione, amici sin da ragazzi, sembravano vivere su binari paralleli: di giorno operai in fabbrica, militanti politici e sindacali, e la sera e la notte frequentatori di locali, sale da ballo dove si esibiva il cantante torinese e insieme a lui tirar tardi fino alle prime ore del mattino. Buscaglione, le sue canzoni, il jazz, il mito americano, i juke box, i bar col flipper tracciavano la mappa di un ambiente sempre più urbano, entro il quale prendeva forma una primitiva, impulsiva identità generazionale giovanile, che comunicava un certo disagio sociale, una sorta di disadattamento, di mancata integrazione sociale, che si manifestava nella fatica a rispettare le regole, imposte loro dalle generazioni adulte, nella scuola e nel mondo del lavoro. Si trattava di comportamenti, ancora del tutto impolitici, che impensierivano la “gente per bene”. L’allarme dell’opinione pubblica perbenista aumentò ancora quando arrivò il rock and roll, subito accusato di scatenare perverse e primitive pulsioni sessuali, violenza, delinquenza, disinteresse per il lavoro e per la morale.
Buscaglione colse la novità del nuovo modo di vivere il tempo libero al ritmo del rock: «se vuoi venire con me/ domani al five o’ clock/ non prenderemo il the/ ma balleremo il rock […] rock, rock, rock/ bambina, rock» ( Five o’ clock rock, Buscaglione, Chiosso, 1957). La campagna contro quella musica e quello stile di vita raggiunse l’apice sul finire degli anni cinquanta, quando montò il fenomeno dei teddy boys e delle teddy girls, descritti come giovani associati in bande e accomunati dalla passione per il rock che giravano in lambretta, indossavano jeans, giubbotti di pelle e avevano una passione smodata per il flipper e il juke box. Erano tutti aspetti disordinati di una questione giovanile che si manifestava in quel decennio, in attesa del boom, degli anni Sessanta, della rivolta esistenziale e generazionale di quel decennio, musicalmente interpretata dal rock and roll e dal beat. Ma Fred oramai non c’era più. Ci manca da cinquant’anni, tanto!

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